Dialetti digitali: la ricerca delle proprie radici linguistiche tra socialmedia e musica


Lo abbiamo visto sui social e a Sanremo: dal barese di Serena Brancale al romanesco di Tony Effe, senza dimenticare il napoletano di Rocco Hunt, il dialetto guadagna terreno tra le nuove generazioni, evidenziando la sempre più manifesta ricerca di un legame tra globalizzazione e radici linguistiche (e identitarie). Il risultato? La costituzione di un binomio tra tecnologia e folklore, innovazione e tradizione.

Passando per i social media, i dialetti sono stati capaci di adattarsi ai linguaggi della comunicazione, valorizzando strutture, forme di espressione e inflessioni vive e dinamiche che alimentano un senso di comunità, senza creare barriere linguistiche per utenti di diversa provenienza geografica. Sono infatti sempre più numerosi meme, reels, tiktok e podcast di creators che adoperano le più disparate lingue vernacolari, finendo non solo per coinvolgere i parlanti abituali, ma anche un pubblico non locale: è proprio questo il processo che porta molti fruitori (giovani e non) a familiarizzare con un lessico dialettale estraneo e a integrarlo nel proprio bagaglio linguistico. E così le parlate locali vengono inevitabilmente (ri)valorizzate, sdoganate, avvicinate a ragazzi e ragazze e, infine, liberate progressivamente dal pregiudizio che le confina a una tradizione considerata meramente folkloristica o desueta. 

Recentemente conclusosi, il settantacinquesimo Festival della Canzone Italiana ha riconfermato la scia della rivendicazione dialettale, già tracciata da un manipolo di artisti nel corso della storia della kermesse canora – nella quale le occorrenze vernacolari non sono certo mancate – e gradualmente in ascesa dalle edizioni post 2009, anno in cui, con l’articolo sesto del regolamento, viene “liberalizzato” il dialetto a Sanremo. Analogamente ai diversi contenuti presenti sulle piattaforme social, anche le canzoni veicolano spesso elementi dialettali, con l’effetto di presa di distanza da una lingua, quella standard, non di rado tacciata come impersonale. Il meccanismo di fondo che porta un cantante o un autore a inglobare nei propri brani anche materiali linguistici regionali o locali è lo stesso di quello adottato da alcuni creators: empatizzare con il pubblico della propria provenienza, rafforzando il senso di appartenenza a una comunità. Ma non c’è solo questo: gli elementi dialettali permettono sia di dare una diversa musicalità a un brano, sia di caratterizzare, colorare un testo – non è un caso, infatti, se i dialetti sono stati spesso e volentieri bollati quali “lingue dell’emozione”. Certo, va sottolineato che la tendenza non è inedita ed è ben evidente l’uso di idiomi territoriali ad opera di alcuni dei nostri più grandi cantautori (si pensi a De André, che non impiegò solo il “suo” genovese, ma arrivò a coinvolgere parlate come il sardo e il napoletano). È però interessante notare come tale tendenza si sia estesa, negli ultimi decenni, a generi musicali diversi, dal rap all’hip-hop, dalla trap all’indie.

Romanticismo 2.0?

Ma la veicolazione del dialetto tramite la musica e i social media rappresenta un cambio di rotta nella maniera in cui percepiamo la nostra identità? In un’era segnata da rapidissimi cambiamenti sociali, culturali e tecnologici, può forse essere confortante un ritorno alle proprie origini e radici, anche linguistiche – e, del resto, ce lo ha già insegnato il Romanticismo, con il suo ritorno al popolare al fine di contrastare la tendenza universalistica e cosmopolita in auge all’epoca. Certo è che si tratta di un arricchimento culturale per tutti: nuove parole portano nuovi modi di descrivere e conoscere una realtà iper-sfaccettata ed eterogenea. E, se la primonovecentesca crisi dell’io si è propagata fino a coinvolgere le ultimissime generazioni, forse può essere contrastata anche grazie al ritrovamento della propria identità linguistica.

Qualche dato (e qualche riflessione)

La più recente indagine ISTAT (2015) sull’uso dei dialetti in Italia evidenzia che, in famiglia, il 46,9% della popolazione si esprime prevalentemente nella lingua standard; il 32,2% combina italiano e dialetto; il 14% utilizza (quasi) solo quest’ultimo. Naturalmente, la scelta di comunicare più o meno frequentemente nella propria parlata regionale o locale dipende soprattutto da fattori sociali, anagrafici e geografici, ma a essere penalizzate nell’acquisizione del dialetto, fin dalla prima età, sono proprio le nuove generazioni. 

È poi fatto noto che preadolescenti e adolescenti abbiano sempre teso a creare ex novo un lessico tutto loro. Ancora una volta, si tratta di un fenomeno – dettato tanto dall’influenza dei mass media quanto dalla necessità di coesione sociale – che riflette la naturale plasticità della lingua e la sua capacità di adattarsi: il linguaggio giovanile contribuisce all’evoluzione linguistica stessa, e ce lo dimostrano le cospicue neoformazioni degli ultimi decenni entrate stabilmente nell’uso comune.

Non si tratta, però, solo di una costellazione di espressioni gergali e idiomatiche o di prestiti mutuati da altre lingue (l’inglese, prima tra tutte): si attinge pure al serbatoio dialettale. Infatti, malgrado le statistiche ISTAT mostrino un calo dell’uso quotidiano delle parlate, si assiste a un loro ritorno in ambiti più informali. Ciò significa che, anche se la maggioranza dei giovani non padroneggia il dialetto in senso stretto (specie, sempre secondo i dati del 2015, nell’area nordoccidentale e centrale del Paese), tende comunque alla sua coabitazione con l’italiano, recuperandolo selettivamente. 

En somme, parafrasando Max Weinreich, se «una lingua è solo un dialetto con un esercito e una marina», allora i dialetti sono lingue senza armate. Ma è forse venuto il momento di dotarli almeno di un plotone: una piccola forza culturale che li tuteli dall’oblio e ne sostenga la dignità; una sfida ormai in mano alle generazioni Z e Alpha. 

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