Confini economici: quando i dazi fanno politica


I dazi e il loro impatto sugli equilibri geopolitici

“Oggi è il giorno della liberazione, sarà il giorno che sarà ricordato come quello in cui  abbiamo reso l’America di nuovo ricca.” Con queste parole, pronunciate alla Casa Bianca  durante il Liberation Day, 2 aprile 2025, il presidente Donald Trump annuncia l’introduzione  di dazi commerciali estesi, rivolti a numerosi Paesi del mondo. 

Nel segno della dottrina “America First”, queste misure segnano l’inizio di una nuova fase  nei rapporti internazionali, caratterizzata da tensioni non solo con superpotenze come la  Cina, ma anche con economie alleate come l’Unione Europea, il Giappone e il Canada.  L’obiettivo dichiarato dal tycoon è quello di proteggere l’industria americana e incentivare il  reshoring della produzione. Ma dietro una comunicazione forte e diretta si cela una  questione cruciale: questa strategia ha davvero rafforzato la posizione economica degli  Stati Uniti, oppure ha innescato dinamiche destabilizzanti a livello globale? 

Per rispondere, bisogna scavare in profondità e osservare i dati; Sebbene i dazi siano  tradizionalmente considerati strumenti di politica economica, in quanto imposte indirette  applicate alle importazioni, nella pratica vengono sempre più spesso utilizzati come leve  strategiche di pressione geopolitica

Nel contesto globale, vari governi hanno impiegato i dazi per influenzare le politiche  interne di altri Paesi, andando oltre la mera protezione del mercato interno. Un caso  emblematico riguarda gli Stati Uniti, dove le amministrazioni hanno imposto barriere  commerciali più rigide nei confronti di Paesi dell’America Latina, come MessicoColombia, con l’obiettivo di spingerli a collaborare su temi sensibili come l’immigrazione e  il contrasto al narcotraffico

Un altro esempio significativo è l’uso dei dazi contro la Cina, legato al problema della  diffusione degli oppioidi sintetici. Il 1° febbraio 2025, l’amministrazione statunitense ha  firmato il decreto “Imposing Duties to Address the Synthetic Opioid Supply Chain in  the People’s Republic of China”, con l’intento di colpire economicamente le imprese cinesi  accusate di agevolare la produzione di fentanyl, una delle sostanze responsabili dell’attuale  epidemia da droghe sintetiche negli USA.  

Queste misure non si limitano a influenzare le relazioni bilaterali tra gli Stati, ma alimentano  un clima di incertezza finanziaria. Ciò viene dimostrato dal World Uncertainty Index (WUI),  che nel 2025 ha raggiunto i massimi storici. Questa situazione dimostra un clima di  instabilità che si traduce in una migrazione degli investitori verso asset rifugio come l’oro,  salito oltre i 3000 dollari l’oncia. L’incertezza – ormai sistemica – frena gli investimenti e  alimenta la volatilità sui mercati.

In questo contesto, la cosiddetta “Dottrina Miran”, presa come spunto teorico e utilizzata da  Trump nella questione dei dazi, mira a contrastare la sopravvalutazione del dollaro che,  secondo l’economista, penalizza l’industria manifatturiera statunitense rendendo le  esportazioni meno competitive e favorendo le importazioni.  

L’obiettivo è anche quello di spingere i partner commerciali a rivalutare la propria moneta,  riducendo così il valore del dollaro e migliorando la competitività delle esportazioni  americane. Tuttavia, la realtà risulta molto più complessa: il dollaro rimane la valuta di  riferimento mondiale, nonché il mezzo predominante per il commercio delle risorse  energetiche. 

L’amministrazione Trump punta a ridurre i tassi di interesse a lungo termine per stimolare  l’economia, ma si scontra con una minore domanda di titoli di Stato americani da parte di  Cina e Giappone. Negli ultimi mesi infatti, Pechino e Tokyo hanno ridotto la loro esposizione  ai Treasury, contribuendo a un aumento della volatilità e dei rendimenti, soprattutto sulle  scadenze più lunghe. Questa tendenza mette pressione sul Tesoro USA, che deve  rifinanziare una quota crescente di debito pubblico in condizioni meno favorevoli, proprio  mentre l’incertezza sui mercati rende più complessa la gestione del disavanzo commerciale,  imponendo scelte strutturali su debito e risparmio interno. 

I dazi, insomma, non sono più semplici tariffe: sono diventati strumenti politici e segnali di  forza, utilizzati dai governi per affermare interessi nazionali in uno scenario globale sempre  più instabile. Comprendere questa nuova fase significa non solo analizzare le dinamiche  economiche, ma anche interpretare i nuovi equilibri geopolitici. In un’economia mondiale  sempre più interconnessa ma polarizzata, il commercio non è più neutrale: è tornato a  essere una questione di potere. Una sfida che l’Italia e l’Europa non possono permettersi di  sottovalutare. 

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