Brevi considerazioni sulla sostenibilità con Antonio Schioppi
Aleggia nell’aria uno strano preconcetto: quello per cui parlare di sostenibilità significa parlare sempre e solo di futuro. Questo assioma ha dirompenti conseguenze sul modo in cui, chi è investito da quest’onda, approccia alle categorie giuridiche, scientifiche e tecnologiche proprie della sostenibilità, rendendo evanescenti i tentativi di sensibilizzazione istituzionale o sociale speranzosi che questa sia la volta buona. La sostenibilità è – stando all’analisi del Rapporto Brundtland, 1978 – la capacità di soddisfare non solo le esigenze delle odierne generazioni, ma anche di quelle che verranno. Significa trasmettere ai futuri cittadini del mondo una valigia eterogenea di risorse, secondo alcuni tale e quale a quella ricevuta – in termini tecnici diremo un “capitale” dalla stessa conformazione- secondo altri maggiorata da un quid pluris, un eccesso, un surplus, frutto del famigerato “tasso di risparmio”. Tuttavia ogniqualvolta vestiamo i nostri abiti migliori per entrare nel dibattito, finiamo per discutere di elementi impalpabili, di una dimensione spazio-temporale che ci è estranea. Di quello che verrà, di quello che sarà, di persone destinate a nascere in un futuro prossimo o lontanissimo, a vivere in case ancora da costruire, fatte da alberi la cui prima radice non è ancora spuntata.
È uno scenario che percepiamo come lontano nel tempo e nei luoghi, e che nullifica qualsiasi desiderio di darci da fare. Siamo in altre parole sempre meno disposti, quando spostiamo anche solo un po’ più in là le utilità che possiamo trarre dalle nostre azioni, a renderci protagonisti del sacrificio che John Rawls riassume con il binomio “Prima Generazione”: chi per primo si mette in gioco per la sostenibilità, regala ai posteri ingenti benefici, senza però poterne altrettanto godere. Un sacrificio brutale, un martirio senza gloria, simile a quello di chi, in età rinascimentale, adoperandosi tra pesanti massi in marmo e alte e fragili impalcature, contribuiva ai lavori di una cattedrale la cui costruzione sarebbe perdurata alla sua esistenza, e di cui dunque non avrebbe mai visto la fine.
Allora, per ben comprendere perché per parlare di futuro sostenibile dobbiamo in primo luogo occuparci di passato, ho intervistato davanti ad una tazza di caffè Antonio Schioppi, giovane manager nella special practice Climate Change and Sustainability Services (CCaSS) di EY S.p.A., che ha scelto di fare della sostenibilità il fulcro dei propri interessi professionali. Dopo aver completato i suoi studi in Economia e Management presso l’università LUISS Guido Carli – dove oggi ricopre il ruolo di Technician Assistant – è attualmente Deputy Director del Dipartimento di SustAInability dell’Ente Nazionale per l’Intelligenza Artificiale (ENIA), Presidente della sottosezione Giovani Campania Calabria e membro del Comitato “Pianificazione e Controllo” dell’Associazione Nazionale dei Direttori Amministrativi e Finanziari (ANDAF). È stato inoltre curatore e redattore, insieme a un gruppo di esperti, della Proposta di Regolamento di Tassonomia Sociale. La sua esperienza professionale, maturata in contesti differenti, si è sviluppata attorno a una semplice ma potente equazione di vita. Quella per cui non occuparsi di sostenibilità oggi, significa non poter immaginare anche una latente e sconfinata pianificazione o programmazione strategica, qualunque sia il settore in cui si operi.
Per entrare nei meandri di questa intervista, e sedere insieme a me al tavolo intorno al quale questa piacevole conservazione è avvenuta, partiamo dalla fine. Dalle ultime parole che ci siamo detti. “Il progresso si ottiene combinando conoscenza, visione e coraggio”. È una frase del Rapporto Draghi, che Antonio mi confida averlo guidato lungo il suo percorso. Ci salutiamo così, con la leggera amarezza che la speranza si trascina. In sanscrito la parola “progresso” è “prakriti” (कृति ), cioè “natura”. È da qui – dalla natura – che deve iniziare qualsiasi considerazione circa uno sviluppo sostenibile. Pensare al progresso economico senza porvi al centro l’interconnessione territoriale, biologica, paesaggistica, è un ridicolo tentativo di recinzione. Un po’ come voler salire fino alla sommità di un palazzo senza scale e senza ascensore. La biosfera e la sociosfera sono sistemi adattivi complessi. Basta un nulla, un cambiamento piccolissimo, per creare disastri irreversibili. E puntare sempre sulla resilienza non è poi un’ottima strategia di risk control.
Antonio mi dice infatti che sostenibilità ambientale, digitale e sociale non possono che andare insieme. Che alla base c’è un unico comun denominatore: l’umano. Questa parola – “umano” – me ne riporta alla mente un’altra: Antropocene. È così che Paul Crutzen – premio Nobel per la chimica – definisce l’odierna era geologica, quel sottile lasso di tempo che va dalla prima rivoluzione industriale fino ad oggi. Un’era geologica
che ha il nostro nome, quello degli umani, perché è nostra non solo la colpa ma anche la responsabilità di porvi rimedio, e la possibilità di incidere significativamente. Antonio mi dice ancora di più: non esiste sostenibilità ambientale se questa non sia sostenibile economicamente, socialmente o digitalmente. I nostri sistemi sono dunque strettamente interconnessi, e cercare di immaginare nuovi scenari o porre rimedio ai danni perpetrati non valutando la complessità e la pluralità degli interessi in gioco, potrà portarci poco lontano.
Ecco: un’altra parola. Pluralità. Questa parola, pluralità, necessita di una visione non comune, ma condivisa. C’è un’enorme differenza tra plurale e polare. Potremmo metterle a due lati opposti del tavolo. Ma come possiamo rilanciare il multilateralismo in un mondo multipolare? Serve un approccio di investimento strategico, mi dice Antonio. “È su questo che ragionano gli investitori: lungo periodo, resilienza, e generazioni future”. E poi, mi confida, è necessaria anche una gestione efficiente ed efficace, un buon governo sociale. Anche il nostro legislatore è partecipe di questa visione. Il disegno di legge n. 865, approvato dal Senato il 29 maggio 2024, introduce il principio dell’equità intergenerazionale come criterio guida nella formulazione delle politiche pubbliche. Viene così promosso un approccio strategico che impone agli attori istituzionali di valutare gli impatti delle proprie decisioni, affinché queste non compromettano i diritti e le opportunità delle generazioni che verranno. La sostenibilità è similissima alla privacy. Un giovane imprenditore agli albori della sua attività, teme la normativa in tema di sostenibilità al pari della normativa sulla tutela dei dati personali. E questo perché entrambe ragionano in un’ottica di risultato, che talvolta stabilisce obblighi precisi e stringenti, e talaltra si appresta solo a indicarti l’uscita dal labirinto, senza rivelarti la strada. Per questo chiedo ad Antonio come contrastare i timori dei giovani imprenditori in questi settori, e quali siano le trappole cui porre attenzione. Antonio mi dice che tutto ruota attorno alla formazione, professionale e tecnica, non solo di chi si appresta a disegnare un apparato imprenditoriale, ma anche e soprattutto di chi vi lavora. Le competenze sono come degli scudi: non sei sicuro saranno in grado di parare tutti i colpi, ma saperle usare e migliorare nel tempo può garantirti una parziale sicurezza. È inoltre importante, aggiunge Antonio, la rendicontazione e il monitoraggio. L’una è quasi una fotografia di indicatori di sostenibilità. L’altra è invece un assestamento continuo. Un po’ come assaggiare la pasta mentre cuoce.
L’intervista finisce. Il sipario si chiude. E davanti ai miei occhi persiste impetuosa l’immagine delle cattedrali. E questo non per retorica, per fascinose narrazioni. Le cattedrali sono l’imperscrutabile segno di una generazione, la nostra, che ha perduto il senso del tempo. Duomo di Milano, 579 anni per essere costruito. Cattedrale di Colonia in Germania, 632 anni. Basilica di San Giovanni e Paolo a Venezia, 457 anni. La sostenibilità non può essere narrata sempre e solo in riferimento ad un futuro irraggiungibile, ma necessita anche di un dialogo consapevole con un passato storico, nel quale regnava protagonista un grande disegno di umanità. Dovremmo dunque ripartire da questo. Dall’urgenza, dal desiderio, di renderci partecipi di un progetto che ci resista, che ci succeda. E tale dialogo generazionale, che vede un passaggio di testimone continuo, necessita di un tavolo che sia plurale. In cui il tempo, la frangibilità della nostra esistenza, assuma i connotati di una devota responsabilità verso chi ci ha preceduto, e non solo verso chi ci succederà.