Dalla crisi del brand Activsm al consumerismo Politico, Il ruolo della Gen Z nell’ascesa nei nuovi scenari di consumo


Negli ultimi decenni, i brand hanno smesso di essere semplici vetrine di prodotti per trasformarsi in attori sociali, chiamati a prendere posizione su diritti LGBTQIA+, giustizia sociale, sostenibilità ambientale, equità economica. Questo fenomeno, noto come brand activism, ha rappresentato una nuova frontiera del marketing, capace di coniugare valori e business attraverso campagne pubblicitarie, politiche aziendali e iniziative concrete a sostegno di cause di rilievo pubblico.

Tale approccio, ha raggiunto il suo apice nel 2020, anno in cui l’onda delle proteste sociali nate negli Stati Uniti — con il movimento Black Lives Matter in prima linea — ha spinto molte aziende a intervenire in modo massiccio. I social network si sono rapidamente saturati di messaggi antirazzisti e slogan inclusivi, sono stati lanciati programmi strutturati di diversity & inclusion, e sembrava che ogni impresa volesse partecipare attivamente al dibattito pubblico. Tuttavia, a qualche anno di distanza, questa strategia sembra aver perso gran parte della sua efficacia e della forza comunicativa.

LA CRISI DEL BRAND ACTIVISM

Dopo una rapida ascesa, il brand activism sembra oggi attraversare una fase di profonda crisi. Il crescente ricorso a messaggi valoriali da parte dei brand ha iniziato a sollevare dubbi sulla loro autenticità. In molti casi, l’attivismo si è ridotto a una strategia di facciata: una messa in scena priva di coerenza e sostanza, da cui sono nati fenomeni come il rainbow-washing o il green-washing. 

A questo elemento si sono aggiunti fattori esterni — quali l’instabilità geopolitica, l’inflazione e la crisi migratoria — che hanno ulteriormente indebolito il brand activism. Questi,  hanno accentuato il divario tra un “pubblico informato” e la massa più ampia, alimentando un clima di forte polarizzazione. In tale scenario, sono emerse nuove forme di radicalizzazione e intolleranza, che rendono l’esposizione delle aziende su temi sensibili molto più delicata e potenzialmente rischiosa. Emblema di questo cambiamento è il termine woke che, da espressione di consapevolezza e giustizia sociale, ha progressivamente assunto accezioni negative, fino a essere associato a ipocrisia o a un’eccessiva politicizzazione.

In presenza di tali dinamiche, appare evidente come molte aziende abbiano progressivamente accantonato l’attivismo di marca, preferendo adottare una posizione di cauta neutralità. Un segnale forte di questo cambiamento arriva da Disney, una compagnia da sempre nota per il suo impegno su questioni di inclusione e diversità, che, di recente, ha annunciato ha dichiarato l’intenzione di rifocalizzarsi sui suoi “valori fondanti”, privilegiando contenuti di successo commerciale.  Questo passaggio evidenzia come le strategie aziendali, anche di grandi multinazionali, siano fortemente condizionate dal clima politico e culturale, oltre che dalla necessità di proteggere reputazione e profitti. 

Tuttavia, mentre i brand si fanno più prudenti e prendono le distanze dalle tematiche sociali, si affermano nuove forme di partecipazione politica che non passano più attraverso le aziende, ma direttamente dai consumatori, in particolare dalle nuove generazioni.

IL RISVEGLIO DELLA GEN Z: IL CONSUMERISMO POLITICO CHE RIMODELLA IL MERCATO

Oggi, con un approccio più misurato, la Gen Z si afferma come protagonista di una nuova forma di attivismo, impiegando il consumo consapevole e i social media come potenti leve di pressione politica.

Il risultato? Il tradizionale equilibrio di potere tra consumatori e aziende si sta capovolgendo: queste ultime, nel tentativo di evitare controversie, si conformano sempre più a logiche esclusivamente commerciali, mettendo in secondo piano le questioni sociali. Di conseguenza, l’impegno sociale e politico si sposta dalle strategie dei brand alle scelte consapevoli dei consumatori, sempre più protagonisti di una forma di attivismo individuale nota come consumerismo politico.

In questo nuovo paradigma, i consumatori non sono più spettatori passivi, ma soggetti che, attraverso i loro acquisti (o non acquisti), determinano quali aziende premiare o penalizzare — non solo per i prodotti (e quindi al prezzo e alla qualità che offrono), ma per i comportamenti che adottano dentro e fuori dal mercato. Il cliente così assume un ruolo attivo di consumatore politico, il cui atto di acquisto diventa una forma di espressione identitaria e ideologica.  

Il consumerismo politico si afferma così come una nuova forma di partecipazione democratica, che va oltre il voto elettorale. Scegliere cosa acquistare significa prendere posizione, esercitare una pressione, costruire un mondo più coerente con i propri principi. Le scelte individuali dei consumatori, una volta considerate irrilevanti su scala globale, oggi possono determinare la reputazione, la sopravvivenza o il successo di un’impresa. Il mercato si trasforma così in un’arena politica dove ogni acquisto è un voto.  

IL BOICOTTAGGIO NEL CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE 

Questo fenomeno si riflette in diverse situazioni attuali, tra cui il conflitto israelo-palestinese. Molti giovani, infatti, pur distanti fisicamente dai luoghi del conflitto, stanno adottando forme alternative di partecipazione attiva, esprimendo il proprio dissenso attraverso le scelte quotidiane di consumo. Nel quadro attuale, i social network rivestono un ruolo cruciale: non solo come strumenti di informazione, ma anche come piattaforme di mobilitazione collettiva. Attraverso post, commenti e condivisioni, i consumatori digitali influenzano opinioni e comportamenti su vasta scala, dando forza e visibilità a iniziative di protesta e boicottaggio.

Tra le più recenti, hanno avuto grande diffusione applicazioni come No Thanks o Boycat, che permettono di identificare brand e prodotti non in linea con le proprie posizioni politiche o morali. Queste app, basate su database costantemente aggiornati, offrono agli utenti uno strumento concreto per evitare aziende coinvolte nel commercio di armi o, in pratiche ritenute eticamente discutibili.  Ma oltre alle app, stanno emergendo anche altri strumenti di pressione e propaganda dal basso. Una delle espressioni più emblematiche di questa tendenza è rappresentata dalla Gaza Cola, una bevanda alternativa alla più nota Coca-Cola, spesso criticata per i legami economici diretti o indiretti con il governo israeliano. In molti paesi, come risposta simbolica e politica, è stata rilanciata sul mercato una bibita prodotta in Palestina e simbolicamente chiamata Gaza Cola, la cui vendita destina parte dei proventi al sostegno delle popolazioni palestinesi colpite dal conflitto. 

Le conseguenze di questo tipo di iniziative, pur essendo spesso difficili da quantificare con precisione, si traducono in effetti economici diretti per le aziende occidentali attive in mercati fortemente influenzati dalle tensioni geopolitiche, come quello medio-orientale. Coca-Cola è stata tra le prime multinazionali a risentire delle conseguenze di boicottaggi diffusi e coordinati: il distributore turco di Coca-Cola ha registrato un calo delle vendite del 22% nell’ultimo trimestre del 2023 (Le Monde FR). Tuttavia, non si tratta di un caso isolato: nel terzo trimestre del 2024, Starbucks ha riportato un calo globale delle vendite del 7%, in parte attribuibile proprio a campagne di boicottaggio (The Telegraph UK). Allo stesso modo, anche McDonald’s e Domino’s hanno registrato significative riduzioni del fatturato nei paesi del Medio Oriente.  Tale dinamica dimostra chiaramente come la decisione individuale di un consumatore non sia più un gesto isolato e privo di impatto, ma possa invece rappresentare il motore di una mobilitazione collettiva con effetti concreti sul mercato globale.

LA TRASFORMAZIONE DEL MERCATO VERSO UN FUTURO PIÙ GIUSTO

Il passaggio dalla crisi del brand activism al protagonismo della Gen Z nel consumerismo politico segna una trasformazione profonda nel mercato. Le aziende, oggi più restie a esporsi su questioni complesse, cedono il campo a una nuova generazione di consumatori che stanno dimostrando come il consumo possa diventare una forma per influenzare l’offerta. Questa evoluzione riflette una più ampia ridefinizione delle dinamiche di potere nel mondo contemporaneo, in cui il consumatore-politico non si limita più a ricevere messaggi dai brand, ma dialoga, contesta e reinventa le modalità di partecipazione sociale e politica.  

Guardando al futuro, è probabile che questa tendenza si rafforzi ulteriormente, spingendo le imprese a ripensare il proprio ruolo nella società e a cercare modi più autentici di interagire con i consumatori. Un possibile ritorno in auge del brand activism appare quindi sempre più concreto, come dimostra la recente presa di posizione di Coop Alleanza 3.0 sui prodotti israeliani. È indubbio, che l’importanza della partecipazione attiva resterà centrale, e chissà che l’effetto domino innescato dalle scelte individuali non possa finalmente e davvero aprire la strada a un futuro più giusto per tutti.

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