Sembra che tutti stiano partendo. Valigie piene, occhi spalancati, biglietti di sola andata verso città che promettono lavoro, riconoscimento, possibilità. Ti guardi intorno e avverti che restare, al contrario, somiglia a una forma di stasi, a una scelta che nessuno racconta.
Poi succede qualcosa.
Succede che torni, in un pomeriggio di vento, e le case del tuo paese ti sembrano più vive di quanto ricordassi. Succede che rientri da un master, da uno stage, da una lunga parentesi universitaria in cui hai imparato molto, ma in cui qualcosa è rimasto sfocato. Succede che ti fermi un attimo, e ti chiedi se vuoi davvero vivere lontano da tutto questo.
È una domanda silenziosa, che si insinua piano. A volte con vergogna, perché per anni ti hanno insegnato che partire è l’unica forma di ambizione, mentre restare significa accontentarsi.
E invece no.
Restare può essere un atto di fiducia. A volte di coraggio. A volte, persino, d’amore.
Chi sceglie di restare (o di tornare) oggi lo fa con una consapevolezza nuova: non per obbligo né per mancanza di alternative, ma per una visione diversa di ciò che conta davvero. C’è una parte di generazione che ha smesso di credere che il successo passi solo per i palazzi di vetro, e che ha iniziato a vedere nel proprio luogo d’origine un’opportunità, non un difetto.
Negli ultimi anni, l’Italia ha vissuto un costante esodo di giovani verso le grandi città o l’estero, spesso in cerca di migliori opportunità lavorative e condizioni di vita più attrattive. Tra il 2013 e il 2022, oltre 350.000 italiani tra i 25 e i 34 anni hanno lasciato il Paese, di cui più di 130.000 erano laureati. I rientri sono stati poco più di 100.000, e solo 45.000 riguardavano laureati, determinando un saldo negativo di circa 87.000 “cervelli” persi.
Anche all’interno del Paese si sono registrati spostamenti significativi: nelle aree interne, tra il 2002 e il 2022, circa 330.000 giovani laureati si sono trasferiti verso i grandi centri urbani o l’estero. Solo poco più di 200.000 sono tornati, lasciando un saldo negativo di circa 160.000 unità.
Il fenomeno del ritorno, dunque, è ancora marginale: si stima che ogni anno rientrino in Italia circa 6.500 giovani qualificati, attratti da incentivi fiscali e nuove opportunità nei settori innovativi.
Anche i numeri, quindi, suggeriscono che restare non è facile. Spesso è come camminare controvento, confrontandosi ogni giorno con infrastrutture inefficienti, strade dissestate e treni in ritardo. Ma proprio per questo, chi resta finisce spesso per diventare custode di un’idea di futuro costruita a partire da piccoli gesti quotidiani.
In questa scelta c’è qualcosa di profondamente personale, che va oltre l’economia o la strategia: ha a che fare con l’identità, con l’appartenenza. Con il desiderio di restare vicini alle proprie radici senza rinunciare a crescere. Come se, finalmente, fosse possibile coniugare due concetti che sembravano inconciliabili: andare avanti e restare.
Naturalmente, non è sempre gratificante. Non ha la narrazione limpida del successo “tradizionale”, perché è fatto di dubbi, di giornate storte, di sensazioni di invisibilità.
Eppure, in chi resta esiste una forma di fedeltà che meriterebbe di essere raccontata di più. Una fedeltà a una comunità che esiste anche quando non applaude.
Nel Sud, in particolare, si percepisce un movimento nuovo. Non si tratta più soltanto di non partire, ma di tornare con qualcosa da offrire: con competenze acquisite, certo, ma anche con il desiderio di restituire. Non per lasciare indietro le proprie origini, ma per reimmaginarle.
C’è un ragazzo che ha lasciato un’importante azienda del Nord per aprire una start-up al Sud, con l’obiettivo di rendere l’agricoltura più efficiente. E c’è un gruppo di amici che ha ridato vita a uno spazio culturale dimenticato, trasformandolo in un luogo di incontro.
Nessuno di loro si definisce un leader. Eppure, lo sono — nel senso più autentico della parola. Perché guidano con l’esempio, con la costanza, con la presenza.
Forse dovremmo iniziare a raccontarle meglio, queste storie. E smettere di cercare la novità solo nei luoghi in cui “succede tutto”. Perché, forse, il vero cambiamento sta avvenendo proprio nei posti in cui “non succedeva più niente”. Ed è lì che il futuro sta mettendo le sue radici.
Oggi, restare è un gesto profondamente politico. È un modo per affermare che non è vero che tutto succede altrove.
È uno spostamento di sguardo che rifiuta la centralità come unico luogo del potere, e riconosce che anche ai margini può nascere valore.
Forse, la sfida non è convincere tutti a restare. Ma riconoscere il valore di chi lo fa, e imparare da loro qualcosa di semplice e potentissimo: che il cambiamento non ha bisogno di riflettori per cominciare.
A volte, basta piantare radici.