Laurearsi per proteggersi: la nuova strategia dei giovani atleti tra pista, podio e università


In un mondo in cui il successo sportivo è spesso effimero e limitato a una manciata d’anni, cresce tra i giovani atleti una consapevolezza nuova: la necessità di costruire una carriera parallela fuori dal campo di gioco. Per molti, questo significa iscriversi all’università, studiare, laurearsi. Non si tratta più di un “piano B”, ma di una scelta strategica, un modo per tutelare il proprio futuro oltre l’arco temporale – spesso breve – di una carriera sportiva. 

La carriera di un atleta professionista, infatti, dura in media circa dieci anni. Dopodiché, salvo rari casi, si apre un periodo complesso fatto di transizioni, riadattamenti e, spesso, reinvenzioni. Le statistiche parlano chiaro: solo una minoranza riesce a passare senza traumi dal mondo dello sport a quello del lavoro tradizionale. Il rischio? Perdere la bussola, l’identità, il reddito. 

È qui che entra in gioco la cosiddetta “dual career”, un concetto sempre più centrale nel dibattito internazionale, sostenuto anche da enti come l’Unione Europea, il Comitato Olimpico e numerosi atenei. L’idea è semplice quanto potente: permettere agli atleti di costruire un futuro accademico e professionale, mentre continuano ad allenarsi e competere ad alti livelli. In questo modo, sport e formazione non si escludono, ma si rafforzano a vicenda. 

Anche l’Università Cattolica del Sacro Cuore si inserisce pienamente in questo quadro. L’ateneo milanese è oggi un punto di riferimento per tanti giovani che, accanto all’impegno agonistico, scelgono di seguire un percorso universitario di qualità. È il caso di Leonardo Fornaroli, pilota automobilistico di caratura internazionale, che ha scelto di affiancare gli studi universitari alla sua scalata verso la Formula 1. O ancora di Cesare Tiezzi, tra i nomi

emergenti del motociclismo italiano nella classe Moto3, che riesce a coniugare il rigore della preparazione atletica con la disciplina dello studio. 

La loro scelta non è isolata. Secondo uno studio dell’Università di Portsmouth del 2023, solo il 15-20% degli atleti affronta la fine della carriera sportiva con piena serenità. I motivi sono molteplici: perdita di status, difficoltà economiche, mancanza di competenze spendibili nel mercato del lavoro. È per questo che l’educazione accademica sta diventando un asset essenziale. Non solo come “paracadute”, ma come leva di empowerment. 

Nei Paesi anglosassoni questo modello è già ben radicato. Negli Stati Uniti, ad esempio, oltre il 90% dei college athlete consegue una laurea, anche grazie a un sistema ben strutturato di borse di studio, tutor dedicati e flessibilità didattica. Ma anche in Europa la tendenza sta crescendo. Atleti di discipline diverse – dal tennis all’atletica, dal nuoto alla scherma – stanno riscoprendo il valore della cultura come strumento di crescita personale e professionale. 

Tuttavia, il percorso non è privo di ostacoli. Conciliare una routine fatta di allenamenti, gare, viaggi e pressioni psicologiche con lezioni, esami e tirocini richiede un’elevata capacità organizzativa, grande motivazione e un sistema accademico realmente inclusivo. È per questo che istituzioni come l’Università Cattolica hanno attivato servizi dedicati agli studenti-atleti, come la personalizzazione dei piani di studio, tutoraggio individuale e modalità di frequenza flessibili. 

La formazione universitaria non offre solo nozioni. Offre prospettive, competenze trasversali, reti professionali. E permette agli atleti di sviluppare una seconda identità, quella dell’imprenditore, del manager, del comunicatore o del professionista in un settore affine o completamente diverso da quello sportivo. In un’epoca in cui il branding personale, la gestione della carriera e le capacità di adattamento sono fondamentali, la laurea diventa una risorsa cruciale. 

Leonardo Fornaroli e Cesare Tiezzi non sono solo esempi di eccellenza sportiva, ma anche ambasciatori di un nuovo paradigma: quello dell’atleta pensante, consapevole, proiettato nel lungo termine. La loro scelta di restare sui libri, mentre corrono verso il traguardo, non è una 

rinuncia, ma un investimento. Perché la vittoria più importante, forse, arriva dopo il traguardo. E inizia proprio da un’aula universitaria.

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