“Volli, e volli sempre, e fortissimamente volli.” – Vittorio Alfieri
Cosa significa veramente talento? Un termine abusato, mitizzato, svuotato, o semplicemente male interpretato? In una cultura come quella italiana, profondamente radicata nell’umanesimo e nel culto del genio individuale, il talento è stato spesso confuso con il dono innato, con una dote naturale capace di giustificare il successo – o peggio ancora – l’eccezionalità.
Eppure, se si scava nella radice etimologica, la parola talento in latino assume molteplici sfumature: talentum, come moneta d’oro, ma anche ingenium (ingegno), facultas (capacità), indoles (natura) e persino voluntas (volontà). Parole che raccontano molto di più di un semplice “dono”.
L’equivoco culturale del talento
Oggi il talento è ovunque: nei job title aziendali (“Talent Acquisition Manager”), nei bandi pubblici (“valorizzazione dei talenti giovanili”), nelle narrative sportive (“nuovo talento del calcio italiano”) e persino nelle startup, dove il “team talentuoso” è spesso più valutato del prodotto.
Ma che cosa intendiamo veramente? Quali sono i criteri oggettivi per definirlo?
Secondo un recente report di Fondazione Symbola (2023), solo il 14% delle PMI italiane dichiara di avere un sistema strutturato per identificare e coltivare il talento interno. Eppure, sono proprio queste realtà – spesso familiari, radicate e lente a rinnovarsi – ad avere il maggiore bisogno di attrarre e trattenere giovani ad alto potenziale. Nel contesto sportivo, l’Osservatorio Nazionale per l’Impiantistica Sportiva segnala come meno del 10% dei giovani considerati “talentuosi” nei vivai professionistici raggiunga la massima serie. Nonostante ciò, l’investimento su questi profili cresce di anno in anno. Perché? Perché il talento è percepito come una scommessa ad alto rendimento, una risorsa strategica e al tempo stesso un simbolo.
La cultura del lavoro oltre il mito
Se chiedi a un atleta di vertice, a un imprenditore di successo o a un ricercatore premiato cosa sia il talento, difficilmente ti parlerà di dono. Ti parlerà di disciplina. Di ossessione. Di metodo.
Kobe Bryant, icona globale della performance, ha costruito la propria carriera su quella che lui stesso definiva la “Mamba Mentality”: non un talento, ma un’etica, un modo di approcciarsi al miglioramento continuo. Il talento, diceva, “is useless if you don’t put in the work every single day.”
Questa prospettiva è condivisa anche da molti imprenditori italiani. Brunello Cucinelli, ad esempio, ha fondato la sua impresa su un’idea di dignità del lavoro che rifiuta
l’eccezionalismo eccessivo del talento per valorizzare invece l’artigianato come arte collettiva e ripetitiva. Non si nasce “talentuosi nel cashmere”: lo si diventa imparando, osservando, rifacendo.
Federico Marchetti, fondatore di Yoox, racconta come la sua scalata non sia stata guidata dal talento nel senso classico, ma da una “ossessione per l’esecuzione perfetta”. E lo stesso vale per figure manageriali come Diego Piacentini (ex Amazon e Commissario Agenda Digitale): “Il talento è sopravvalutato. Quello che conta è la continuità della performance.”
In ambito accademico, la Scuola Superiore Sant’Anna ha avviato progetti di mentorship dove l’accompagnamento del “potenziale” passa attraverso l’allenamento della resilienza cognitiva e dell’auto-regolazione emotiva, ben lontani dal concetto passivo di “dono”.
Un altro caso emblematico è quello del mondo startup. L’incubatore italiano PoliHub valuta i founder non solo per le competenze tecniche, ma per quello che definiscono “grit”, la capacità di resistere alla frustrazione, iterare in fretta, accettare il fallimento come fase necessaria. In pratica: il talento si misura nel tempo, non nel pitch iniziale.
In fondo, anche la cultura classica ce lo ricorda: per Cicerone, il talento senza disciplina era sterile. E per Seneca, il talento non era altro che “la possibilità data dall’impegno”.
Ridefinire il concetto di talento oggi
Serve, quindi, una nuova grammatica del talento. Non più solo “potenziale da estrarre”, ma processo da innescare. Il talento deve essere visto come:
● una capacità coltivata, non solo posseduta;
● una vocazione supportata da contesto, non un exploit isolato;
● una leva strategica, ma solo se accompagnata da cultura, metodo e visione.
La vera sfida per le aziende italiane – specialmente quelle più tradizionali – non è trovare “il talento”, ma costruire i contesti che lo rendano possibile. E qui entrano in gioco il design organizzativo, la formazione, il coraggio di investire in persone e non solo in skill.
Come scrive il Censis nel Rapporto 2023 sul Capitale Umano: “Il talento non fugge solo per i soldi, ma per la mancanza di una visione in cui riconoscersi.”
Conclusione
In un Paese che ha espresso Leonardo, Michelangelo, Fermi, ma anche Olivetti, Marconi e Camilleri, parlare di talento non può essere un esercizio retorico. Dobbiamo smettere di trattarlo come una divinità capricciosa e iniziare a trattarlo come una responsabilità collettiva. Forse, allora, tornerà a significare davvero qualcosa.
Nell’ottica di proseguire a settembre con il terzo e quarto quarter di quest’anno solare e programmare le attività di fine anno, ci teniamo a far passare questo augurio. Buona estate!