Perché il 18 aprile 1948 continua a parlare al nostro presente
In Italia amiamo (giustamente) ripetere che abbiamo una delle Costituzioni migliori del mondo. È vero: principi altissimi, visione universale della persona, diritti e garanzie che molti Paesi ci invidiano. Eppure la domanda resta appesa: perché governare, da noi, è sempre così difficile?
Per capirlo bisogna tornare a una data: 18 aprile 1948. La Democrazia Cristiana vince le prime elezioni della Repubblica contro il Fronte Popolare di socialisti e comunisti. Non fu una normale alternanza. Fu l’atto di nascita di una paura reciproca destinata a durare: se vincono “loro”, tirannia rossa; se vinciamo “noi”, tirannia clerico-fascista. In quel clima, i costituenti fecero una scelta comprensibile: impedire che qualcuno potesse governare senza contrappesi. Era la difesa migliore contro il ritorno dei fantasmi del passato.
Quella scelta ha costruito il nostro orgoglio istituzionale, ma ha lasciato un’eredità: un sistema a forte densità di veti. Governi di coalizione, equilibri delicati, poteri diffusi e difficili da coordinare. Abbiamo massimizzato le garanzie, spesso minimizzando la velocità della decisione. La libertà è stata protetta, l’efficacia amministrativa no.
A questa architettura si è aggiunta, nel 2001, la riforma del Titolo V. Intento nobile: avvicinare le decisioni ai cittadini, valorizzare le autonomie. Risultato effettivo? In molti ambiti si sono create competenze sovrapposte tra Stato, Regioni e Province. Un effetto collaterale della riforma del Titolo V è stato anche quello di alimentare la crescita del debito pubblico, soprattutto per la gestione regionale. Ogni Regione ha finito per muoversi in ordine sparso: negli appalti, nella spesa sanitaria, nei servizi essenziali. Non esiste un coordinamento nazionale, e la difformità dei comportamenti regionali produce squilibri che non si riscontrano nemmeno in sistemi federali molto più ampi, come gli Stati Uniti. Prima della riforma, le competenze regionali erano limitate e definite. Dopo il 2001, invece, l’elenco delle materie riservate allo Stato ha lasciato tutto il resto alle Regioni, creando uno sbilanciamento di poteri difficile da bilanciare. Alcune Regioni hanno esercitato pienamente funzioni e programmazione, altre sono rimaste indietro: il risultato è una spesa pubblica cresciuta in modo sproporzionato. In più, la distribuzione delle risorse continua a basarsi sul criterio storico: si assegna oggi quanto si assegnava negli anni ’50. Ma se le competenze sono state decentrate, era necessaria anche una ridistribuzione coerente. Non avendola fatta, le disparità si sono cristallizzate: chi era avvantaggiato continua a esserlo, chi era svantaggiato resta indietro.
Nel frattempo le Province sono rimaste riformate a metà: né abolite né pienamente responsabilizzate. Traduzione operativa: rimpalli su scuole e strade, tempi incerti, responsabilità opache.
Un’ulteriore considerazione riguarda i padri costituenti. Avevano previsto che il decentramento fosse graduale, perché sapevano che un trasferimento immediato e massiccio di competenze avrebbe potuto creare squilibri. L’intento era quello di accompagnare passo dopo passo le Regioni, dando loro strumenti e capacità di programmazione.
Il punto oggi non è demolire la Costituzione – sarebbe una caricatura, oltre che un errore – ma aggiornarne i meccanismi per un contesto che chiede rapidità, chiarezza e accountability.
C’è poi un tema culturale, non meno importante di quello normativo: la paura dell’avversario. Finché la politica ragiona come nel ’48 – se vinci tu è la fine della democrazia, se vinco io è la sua salvezza – qualunque riforma nascerà zoppa. Servono regole che tolgano ossigeno ai veti, ma serve anche una leadership capace di convincere che decidere non è sinonimo di prevaricare. Le imprese lo sanno bene: senza decisioni non c’è investimento, senza investimento non c’è lavoro, senza lavoro non c’è coesione.
La nostra Costituzione resta un capolavoro di civiltà. Il paradosso italiano è averla circondata, negli anni, di meccanismi che proteggono tutto tranne una cosa: la capacità di scegliere in tempi utili. Non è un peccato originale irredimibile. È un cantiere, aperto. Se il 18 aprile 1948 ci ha insegnato a non temere i tiranni, il 2025 dovrebbe insegnarci a non temere le decisioni. Perché la vera alternativa, oggi, non è tra tirannia e libertà: è tra lentezza e futuro. E il futuro, di solito, non aspetta.