Il presidente di Bistoncini & Partners racconta come si è trasformato il mestiere del lobbista: dall’ambasciatore relazionale allo stratega della complessità. E spiega perché i giovani italiani rischiano di perdere opportunità se non guardano oltre confine
C’è un paradosso affascinante nella professione del lobbista: è una delle attività più antiche del mondo, dove c’è potere, c’è chi cerca di influenzarlo, eppure è in costante trasformazione. “Da un lato è una professione innovativa, sicuramente dinamica,” spiega Fabio Bistoncini, fondatore e presidente di Bistoncini & Partners, uno dei principali studi di public affairs in Italia, “dall’altro, è una delle professioni più antiche del mondo.”
Nonostante ciò, nel mondo accademico italiano se ne parla pochissimo, e quando gli studenti ne sentono parlare per la prima volta, l’immaginario è spesso quello dei film: stanze fumose, interessi oscuri, corruzione.
La realtà è molto diversa e, soprattutto, sta cambiando rapidamente.
Dalle relazioni alla strategia: tre fasi di un’evoluzione
Bistoncini individua tre grandi fasi nell’evoluzione della professione. “All’inizio, il lobbista si fondava semplicemente sull’elemento relazionale” racconta. “La sua figura era avvicinabile a quella dell’ambasciatore, del mediatore culturale, dove l’elemento relazionale era la parte più rilevante.”
Poi è arrivata una prima trasformazione: il lobbista ha cominciato a “rimodulare le istanze dei gruppi di interesse per renderle più appetibili nel contesto politico-istituzionale.” Non più solo relazioni, quindi, ma capacità di entrare nel contenuto, anche se ancora scritto da altri.
Oggi siamo nella terza fase, quella più complessa e interessante. “Il lobbista definisce tutte le strategie per raggiungere i propri obiettivi” spiega Bistoncini. “Di fronte alle istanze delle organizzazioni, individua le proprie modalità, le proprie strategie per raggiungere gli obiettivi del cliente”.
Non è solo un cambio di ruolo: è un cambio di paradigma. Il lobbista moderno non è più un semplice facilitatore, ma uno stratega che deve padroneggiare comunicazione, dati, evidenze empiriche e sensibilità politica.
Il peso dell’opinione pubblica e la sfida della trasparenza
Il motivo di questa trasformazione? “La decisione pubblica è esposta a un dibattito pubblico sempre più ampio” osserva Bistoncini. Questo cambia tutto.
Oggi una richiesta deve essere “sempre più motivata, basata su evidenze che devono essere dimostrate, verificate e verificabili da parte del decisore.” Serve un set di dati robusto che sostanzi ogni proposta di policy.
“Questo va tutto a vantaggio della competizione di interessi” sottolinea il presidente di Bistoncini & Partners. “Dovrebbe vincere non il gruppo più strutturato, ma quello che riesce a sviluppare una richiesta di policy più efficace, con argomentazioni che prescindono dalla vicinanza ideologica a questo o quel partito.”
È una competizione più sana, più meritocratica. Ma c’è un problema: la percezione pubblica non è cambiata di pari passo.
L’Italia e il peso della cultura partitica
“La percezione non è molto cambiata” ammette Bistoncini con realismo. “Rimane ammantata da quest’aura di mistero, addirittura di corruzione”. Il motivo è culturale: “Nel nostro Paese, storicamente, le istanze della società venivano canalizzate soltanto dalla forma partito. Gli stessi partiti hanno sviluppato una narrazione negativa nei confronti degli interessi particolari.”
Il risultato? “Se la mia professione è percepita come qualcosa di poco chiaro, ne devo prendere atto, cosa che ho fatto ormai da anni.”.
Eppure, in Europa il lobbying è riconosciuto di diritto. “Nella creazione del meccanismo europeo si è sempre previsto un dialogo istituzionale tra interessi e decisori, Commissione e Parlamento” spiega Bistoncini. “In Italia non c’è un riconoscimento di diritto, ma di fatto. Nel concreto, la nostra attività non cambia molto, cambia però la prospettiva.”.
La rivoluzione digitale e l’AI: nuovi strumenti, nuove competenze
Come tutte le professioni, anche il lobbying è stato trasformato dalla digitalizzazione, ma in modi specifici e sorprendenti.
“La pandemia ha accelerato l’utilizzo di forme di riunioni a distanza” racconta Bistoncini. “Ma c’è di più: oggi il position paper lo devo scrivere pensando che verrà fruito tramite WhatsApp o email, non stampato. Devo pensare al mio strumento in funzione del canale con cui viene trasferito.”.
E poi c’è l’intelligenza artificiale. “Sta trasformando radicalmente alcuni pezzi della nostra professione” spiega. “Il grande lavoro di sgrassatura per arrivare a un testo di emendamento ormai viene fatto attraverso strumenti di AI. Poi serve ancora l’elemento umano, la sensibilità, la competenza, ma siamo solo all’inizio di questo percorso”.
Ovviamente, con un caveat fondamentale: “Chi fa questo lavoro utilizza solo strumenti proprietari. Non farei mai fare un emendamento a ChatGPT”.
Cosa cercano (davvero) i recruiter
Quando si parla di opportunità per i giovani, Bistoncini è chiaro: “Ci deve essere una propensione alla policy, una conoscenza delle grandi linee del processo decisionale italiano, europeo, mondiale. Ma la competenza specifica si crea sul lavoro”. Più importante è “una grande curiosità nei confronti di tutto quello che accade nella società. Gli interessi sono nella società: conoscere come si trasforma permette di avere una competenza maggiore nel trasferire gli interessi dei nostri clienti”. Serve una “capacità di lettura della complessità”: dall’agricoltura all’automotive, dalle nuove tendenze alla geopolitica. “Questo è quello che chiediamo” dice Bistoncini. E poi c’è il tema delle lingue. “È paradossale,” ammette, “io vengo da una generazione in cui l’inglese lo parlavamo in pochi e io lo parlo male. Poi c’è stata una generazione che sembrava padroneggiarlo. Oggi mi sembra ci sia un po’ di regressione”.
La lezione più dura per i giovani italiani
Ma è quando si parla di competizione che Bistoncini diventa più diretto. “I ragazzi di 25-26 anni pensano che chi fregherà loro il lavoro sarà il compagno di classe, il compagno di banco. Chi fregherà loro il lavoro è uno che studia a Bruxelles”. I numeri lo confermano: “Quando riceviamo curricula per l’ufficio di Bruxelles, sono tutti ragazzi che sono stati all’estero. Non c’è paragone con quelli italiani. Non sono neanche paragonabili.” Il problema non è la qualità dell’università italiana, “mediamente un laureato italiano è più preparato di un laureato di altri Paesi” sottolinea Bistoncini. Il problema sono le competenze trasversali: “La nostra università non le aiuta. Conoscenza delle lingue, di culture diverse, apertura mentale: questo vale per tutte le professioni”. Serve andare all’estero. “Se vuoi fare la cameriera o l’architetto, la conoscenza di culture e lingue diverse ti dà qualcosa in più a parità di studi”.
L’interesse generale non esiste
Alla fine della nostra conversazione, Bistoncini lascia cadere una frase che suona provocatoria ma è profondamente vera: “L’interesse generale non esiste per definizione”. È questo il cuore della questione. In una democrazia, l’interesse generale è la composizione, sempre provvisoria e sempre in discussione, di interessi particolari legittimi. Il lobbista moderno è chi aiuta questi interessi a farsi sentire in modo trasparente, documentato, competitivo. Non è più l’uomo delle relazioni nell’ombra. È uno stratega della complessità, un traduttore tra società e istituzioni, un professionista che deve padroneggiare dati, comunicazione, tecnologia e sensibilità politica. È una delle professioni più antiche del mondo. Ma ogni giorno diventa un po’ più nuova.