Show, don’t tell


Mettiamo le mani avanti.  

Parlare del buono vuol dire parlare del bello, e parlare del bello è  tutt’altro che facile. Oppure: parlare del buono vuol dire parlare  del bello perché non c’è cosa bella che non sia anche buona. Il  problema – è evidente – resta lo stesso in qualunque formulazione:  definire il bello è tutt’altro che facile. A questo punto, è utile  invocare Sant’Agostino non per pregare, attenzione, ma per  parafrasare la sua risposta alla domanda su che cosa fosse il tempo:  se nessuno me lo chiede, lo so perfettamente; se qualcuno me lo chiede, ecco che  non lo so più. Se invece del tempo a Sant’Agostino fosse stato chiesto  del bello, la sua risposta sarebbe stata la stessa, anche se  l’ammutolimento deriverebbe da ragioni diverse. In questo caso, la  ragione più evidente è che le cose belle ci emozionano. Ed  emozionandoci, ci sottraggono quel distacco professionale che  siamo abituati ad avere: la descrizione più imparziale, oggettiva e  completa di ciò che ci commuove, che ci coinvolge emotivamente,  sembrerà sempre insoddisfacente. Perciò, o si resta in silenzio, o si  cercano piste alternative; a Ernest Hemingway, aver fatto da  apripista valse il premio Nobel per la letteratura.

Seguendo il suo  ragionamento, l’assunto è semplice: davanti al fatto che ogni  rappresentazione verbale, letteraria, scultorea, cinematografica o  ceramistica sarà sempre lontana anni luce dall’intensità emotiva  che si prova nello sperimentare in prima persona la realtà, la  soluzione è la rassegnazione – show, don’t tell. Fa’ vedere, non  spiegare – è questo il monito. Fa’ vedere che un amico si è  sacrificato per salvare la tua vita in un campo di guerra, non  spiegare cosa provi. Che ci sia sempre spazio per l’immedesimazione e l’interpretazione personale del fatto! Fa’  vedere l’effetto della speranza su una generazione, non spiegare  cos’è questa speranza. Insomma, non serve cercare di descrivere  cos’è il bello, cos’è una buona azione: serve mostrarli. Ma facendo  un’eccezione, non avendo ancora intenzione di vincere il premio  Nobel e chiudendo un cerchio rimasto sospeso, il bello (kalós) e il  buono (agathós) per i Greci non erano concetti distinti. Non lo  sono nemmeno per noi di Volunteers. Alle attività che  organizziamo partecipano centinaia di giovani non perché portare da mangiare ai poveri sia cosa buona e giusta, ma perché è bello  vedere sorridere la gente quando finalmente può sedersi a tavola.  Non si organizzano spese solidali perché è bene stare davanti al  supermercato otto ore sotto la pioggia chiedendo un pacco di  pasta ai passanti, ma perché è bello pensare che la vita di tante  persone dipenda da te. Nessuno crede sia la scelta giusta mettere la  mascherina ed entrare nei corridoi bianchi e lunghissimi degli  ospedali di prima mattina, ma lo si fa perché la cosa più bella del  mondo è vedere giocare e sorridere bambini che ogni giorno, tutto  il giorno, sono sdraiati su un letto attaccati a una flebo. Cose simili  si potrebbero dire delle missioni umanitarie nella giungla  sudamericana o nelle periferie indiane, perché, dopotutto, la base  è sempre la stessa: è inseguendo il bello che l’uomo trova il bene.

E  se di un’altra cosa bella si può parlare, tocca ai ragazzi che non  hanno nessuna fretta di chiudere la riunione Zoom del sabato sera  per organizzare le attività solidali del giorno dopo – mostrando, a  proposito, che la nostra generazione è molto diversa rispetto a  come viene descritta. Quell’accusa a noi rivolta, che vuole  colpevolizzarci di una pigrizia latente che indebolisce i rapporti  personali, demolendo la nostra dimensione collettiva, è il peggior  insulto che possa esserci rivolto. È una falsità che gli oltre 15.000  giovani che hanno partecipato alle attività di Volunteers  smentiscono ogni volta che fanno del bene divertendosi. Ragazze e  ragazzi in ventuno città europee, da Catania a Milano, da  Barcellona a Rotterdam, che vogliono fare della vita un capolavoro  impattando la società, restando allergici alla mediocrità: il che –  controintuitivamente – non ci stupisce affatto. Perché? Perché  Volunteers riaccende una lampadina che tutti credono fulminata,  ma che in realtà è solamente spenta: l’uomo non è solo un animale  politico, è anche un animale solidale. Empatico. Che trova se  stesso nel confronto con l’altro e che si realizza solo se immerso in  un contesto sociale. Ecco il primo mattone su cui fa leva V’s: se  ogni persona è per natura solidale, non ci sarà mai una persona a  cui, per natura, dispiacerà aiutare o essere aiutata dal prossimo. 

Dunque, il progetto non ha limiti – siano essi longitudinali,  latitudinali, politici o confessionali. E se a questa base universale si aggiunge l’effervescenza comune a tutti i giovani, il progetto non  potrà che continuare a crescere tachicardicamente. Che quanto è  nato in una stanzetta di una parrocchia siciliana possa avere  gruppi operativi nelle più importanti università europee. Che si  continui ad andare in corsia a far giocare i bambini, certo, ma  senza dimenticare di impegnarsi in egual modo nella divulgazione  scientifica con V’s Med. Che la stessa associazione giovanile possa  pulire le strade e ospitare ai suoi eventi i più importanti personaggi  pubblici del Paese. Che possa ispirare quegli stessi giovani a  diventare i promotori di un cambiamento politico, economico e  sociale per la nostra Italia. La questione è semplice: non dobbiamo  esaurirci in quello che siamo, ma dobbiamo evolverci tenendo a  mente cos’altro possiamo essere. Perché tante altre cose possiamo  diventare. E tanta altra strada c’è ancora da fare.

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