Talvolta, durante i miei viaggi mentali ricordando l’infanzia, mi capita di ripensare a com’era la casa dei miei nonni. Ricordo in modo abbastanza preciso il mobilio, i soprammobili, la schiera di bottiglie di vino e le numerose enciclopedie sugli scaffali. E poi, immancabile, il “servizio buono”, con i calici di cristallo e le posate d’argento, che per nessuna ragione avrei dovuto toccare. Affascinato da tutte queste suppellettili, sognavo di avere anch’io, da grande, una casa piena di tante cose spesso e volentieri inutili, ma belle. Tanto più che i miei nonni, con due stipendi da insegnanti di scuola superiore, se le erano potute permettere.
Analizzando oggi quel desiderio dal punto di vista del me quasi ventenne, tuttavia, più che sognare mi viene da riflettere: c’è stato un tempo, non troppo lontano, in cui appartenere al ceto medio significava avere almeno una casa di proprietà, un lavoro stabile, la possibilità di mantenere una famiglia e di programmare un futuro. E, se non si fosse riusciti a conquistare tutti questi privilegi con le proprie sole forze, il sistema di welfare dello Stato italiano avrebbe offerto un aiuto sufficiente all’indigente.
Secondo i dati Istat, nel 2023 oltre il 60% delle famiglie italiane si colloca in quella che viene ancora definita “classe media”. Tuttavia, a un’analisi più attenta, questa definizione risulta sempre più svuotata. Già, perché solo una minoranza mantiene oggi le caratteristiche storiche della middle class: sicurezza economica, possibilità di accumulo e consumo, stabilità lavorativa. Gli altri vivono in una zona grigia fatta di precariato, salari stagnanti e crescente vicinanza alla soglia di povertà. L’Ocse ha calcolato che il potere d’acquisto del ceto medio in Italia è sceso del 6% nell’ultimo decennio, mentre il costo dei beni essenziali, utenze domestiche, cibo, medicine, è aumentato ben oltre l’inflazione.
Il risultato è una società bipolare: in alto, una minoranza che vive molto meglio rispetto allo standard minimo per una vita dignitosa; in basso, una nuova maggioranza silenziosa che, pur lavorando, non riesce a risparmiare, investire o progettare.
L’aiuto economico dei genitori è oggi più importante che mai per permettere a un giovane di mantenere anche solo il tenore di vita sostenuto dalla generazione precedente: ormai è proprio la famiglia di nascita, con i suoi risparmi, il vero argine contro l’inflazione. E, sebbene in una certa misura sia sempre stato così, il dato davvero preoccupante è l’aumento dell’età media del lavoratore precario ed economicamente instabile, che rappresenta la prima causa del calo della natalità in Italia.
Le difficoltà sono ingenti anche per il mondo delle piccole e medie imprese, notoriamente il cuore pulsante della produttività italiana. La polarizzazione sta infatti avvenendo anche qui: da un lato, abbiamo aziende multinazionali con extra-profitti stellari; dall’altro, sempre più imprese locali che non riescono a stare al passo con la competitività del mercato. Ecco dunque spiegato l’aumento esponenziale del prezzo delle case in città e il contestuale spopolamento della provincia.
Dov’è la salvezza, allora? Il ceto medio è davvero destinato a scomparire, lasciandoci una società fatta di soli estremi? Presterei attenzione a non cadere nel fatalismo. Quella a cui stiamo assistendo non è la realizzazione di un disegno del destino, ma un’evoluzione che vede protagonisti gli uomini e il mondo del lavoro, e come mezzo la tecnologia. Herbert Spencer, scienziato e sociologo del XIX secolo, insegna che l’evoluzione non è altro che un principio insito nella struttura dell’universo e consiste, nel caso specifico della società umana, in una serie di cambiamenti volti a trasformarla da un’entità semplice e scarsamente organizzata a una più complessa e capace di fronteggiare i problemi provenienti dall’esterno.
Non c’è motivo, allora, di credere che ciò che sta accadendo negli ultimi anni sia diverso da altri processi evolutivi già sperimentati dalla società; resta solo da distinguere quali elementi sia opportuno cancellare e quali invece implementare nell’ambito della formazione e del lavoro. La chiave risolutiva, a questo punto, è proprio la tecnologia: urge che il sistema Italia accolga, e non subisca, l’innovazione portata principalmente dall’intelligenza artificiale.
A ben guardare le previsioni, l’AI sarebbe perfetta per sostituire molte delle mansioni svolte dagli impiegati della pubblica amministrazione o dal personale d’ufficio delle aziende private, cioè proprio i lavori per definizione tipici del ceto medio. Se si decidesse di far subire questo cambiamento al nostro Paese senza intervenire, assisteremmo a una vera tragedia occupazionale; se invece accogliessimo l’avvento dell’innovazione tecnologica adattando la nostra offerta di lavoro alla domanda, il sistema potrebbe sopravvivere e migliorare più rapidamente in futuro.
Durante una conferenza a cui ho avuto l’onore di partecipare, organizzata dalla SPES Academy, istituto di formazione post-universitaria economica e sociale, il prof. Oreste Pollicino, giurista costituzionalista, ha offerto spunti di riflessione molto interessanti. Ha dichiarato che la causa principale della lentezza burocratica nel recepimento delle norme europee sull’innovazione tecnologica, come il GDPR o l’AI Act, risiede proprio nel modo in cui queste stesse norme sono scritte: con indicazioni poco chiare e spesso lasciate alla discrezione dei singoli Stati, generando confusione tra l’interpretazione e l’applicazione degli stessi concetti da diverse fonti del diritto.
C’è bisogno allora, secondo Pollicino, di una formazione specifica rivolta agli stessi componenti degli enti legislativi; per i giovani, invece, è fondamentale iniziare sin dalla scuola dell’obbligo con un programma educativo sulla tecnologia, per poi approfondire in ambito accademico la cosiddetta AI literacy.
Concludendo, il prof. Pollicino ha affermato che si tratta sicuramente di un percorso lungo e complesso, ma il giusto punto di partenza è promuovere la cooperazione tra le istituzioni e formare sin dall’università la futura classe dirigente a un uso coerente e responsabile delle nuove tecnologie, in particolare dell’intelligenza artificiale. L’Italia, come il resto del mondo, si trova a un punto di svolta epocale: è bene non farsi trovare impreparati.