Dall’automazione alla delega del lavoro. Benvenuti nell’era degli agenti AI


Qualcosa, nelle organizzazioni, sta lentamente ridisegnando i contorni del lavoro. Un confine che fino a poco tempo fa appariva ben delineato, quello tra lo strumento che usiamo e il collaboratore con cui parliamo, ha iniziato a perdere nitidezza. E mentre quella linea di demarcazione diviene via via più labile, si trasforma anche l’idea stessa di cosa significhi collaborare, decidere e, in ultima analisi, creare valore. 

Per definire questa transizione è recentemente emerso un concetto: quello di delegazione agentica. Oggi, infatti, non si parla più di attività semplicemente assistite o automatizzate, ma di interi processi delegati a sistemi intelligenti, agenti progettati per agire come alleati, a fianco delle persone. In uno scenario come questo, comprendere i cambiamenti in atto è molto più di un semplice esercizio. Significa cambiare prospettiva su quella che è sempre stata l’essenza del lavoro. 

Quando l’AI diventa collaboratore, non strumento 

Un agente di AI non è un chatbot educato. Non è un assistente che risponde a comandi preimpostati. Parliamo, piuttosto, di un sistema capace di pianificare autonomamente, usare strumenti, mantenere memoria di contesto e portare a termine attività complete, dall’inizio alla fine. La supervisione umana interviene quando serve, non a ogni singolo passaggio. 

Le principali aziende tecnologiche convergono verso questa direzione, con approcci diversi ma una visione comune. OpenAI ha aperto la strada con GPTs e Agents API, creando agenti personalizzabili nei flussi di lavoro. Anthropic, con Claude, porta un ragionamento contestuale profondo nelle operazioni quotidiane. Microsoft ha reso pubblici framework multi-agent come AutoGen, pensati per far cooperare più agenti su compiti complessi. In parallelo, piattaforme open-source come n8n permettono di orchestrare automazioni visive, collegando API e strumenti aziendali. 

Ciò che emerge non è più l’automazione isolata, quella che si limita a sostituire un compito ripetitivo. È qualcosa che si nutre di dati, si adatta ai contesti, impara dai risultati. Qualcosa che chiede alle persone di ripensare il proprio ruolo: non di abbandonarlo, ma di ridefinirlo. 

E chi guida le aziende lo sa: non è un’ipotesi, è una realtà che si sta già concretizzando. Una survey McKinsey (2025) rileva che il 23% delle aziende sta già scalando agenti AI, mentre un ulteriore 39% li sta sperimentando. Il punto di partenza è pragmatico: cominciare da poco, testare in sicurezza, misurare l’impatto. E poi scalare, con metodo e senza fretta, perché il rischio qui non è solo tecnologico. È culturale.

La prospettiva di SAP: l’equilibrio tra contesto, valore e responsabilità 

Nel panorama enterprise, questa visione sta prendendo forma concreta. SAP, colosso tedesco del software gestionale, la traduce in pratica partendo da un’intuizione chiara: l’intelligenza artificiale funziona solo se ha contesto. Senza contesto — ovvero senza accesso ai dati giusti, alle relazioni tra i processi, alla memoria operativa dell’azienda — resta un esercizio brillante, forse, ma sterile. 

L’azienda ha introdotto così agenti collaborativi, come il copilota Joule — e agenti specifici per Finance, Supply Chain, HR e Customer Experience — costruiti su dati di business coerenti e governati da un’infrastruttura pensata per durare. L’architettura sottostante, che poggia su SAP Business Data Cloud, unifica i dati frammentati (SAP e non-SAP) in un unico strato semantico e li collega tramite un Knowledge Graph, garantendo risposte accurate e contestuali. 

Questa filosofia si traduce in un equilibrio necessario, riassunto nei tre pilastri dichiarati: Unrivaled AI, Unmatched Data, Unparalleled Applications. L’AI più avanzata, se non poggia su dati affidabili, produce rumore, non valore. 

Ed è proprio in ambiti dove velocità e coerenza devono convivere che questi agenti fanno la differenza. Nella supply chain supportano la pianificazione e anticipano i colli di bottiglia. Nel finance migliorano la trasparenza e riducono gli errori di riconciliazione. Nel customer service analizzano pattern prima ancora che il cliente manifesti il disagio. 

L’obiettivo non è mai sostituire le persone: è ridurre la complessità che le rallenta e liberare spazio mentale per permettere loro di dedicarsi a compiti più strategici. Si delinea così un equilibrio delicato tra automazione e responsabilità, dove il valore si misura dalla capacità di trasformare i dati in decisioni: velocemente, sì, ma con consapevolezza. 

SAP riassume questa filosofia operativa in tre parole, che sono anche tre vincoli progettuali: 

Relevant – l’AI deve essere consegnata nel contesto dei processi aziendali. – Reliable – l’AI deve essere addestrata sui dati di business più ampi del settore. – Responsible – l’AI deve essere costruita su standard etici e di privacy rigorosi. 

Questi principi non sono solo la garanzia di uno strumento migliore: sono il presupposto per un modo di lavorare diverso. 

Quando la delega diventa dipendenza: il caso Klarna 

Ma non tutte le storie di delegazione agentica seguono traiettorie virtuose. Il caso di Klarna, fintech svedese con oltre 150 milioni di utenti attivi, lo dimostra. 

Nel 2024, l’azienda ha implementato un sistema di agenti AI per il customer service, con l’obiettivo di sostituire circa 700 operatori umani. I numeri iniziali sembravano promettenti: il

sistema gestiva due terzi delle richieste di supporto, 24/7, con proiezioni di risparmio milionarie. Un’efficienza algoritmica che, sulla carta, rappresentava il futuro. 

La realtà ha seguito un copione diverso. Nel giro di pochi mesi, la soddisfazione dei clienti è crollata. L’agente falliva di fronte a situazioni complesse — contestazioni di frode, dispute su pagamenti, errori nelle consegne — casi che richiedevano non solo competenza tecnica, ma anche sensibilità, capacità di negoziazione, comprensione del contesto emotivo. Quello che per un algoritmo era un ticket da chiudere, per un utente era un problema reale che generava frustrazione e sfiducia. 

Secondo uno studio del MIT (2025), il 95% dei progetti pilota di AI agentica fallisce nel passaggio alla produzione su larga scala. Klarna è finita in quella statistica. A metà 2024 ha dovuto riassumere operatori umani e ridisegnare il servizio in modalità ibrida: l’AI gestisce le richieste routinarie, gli esseri umani intervengono dove serve giudizio ed empatia. 

Klarna aveva provato a delegare troppo, troppo in fretta, confondendo l’automazione con l’intelligenza, la velocità con l’efficacia. La domanda, dunque, non è se delegare, ma cosa delegare e come. 

Una nuova cultura del lavoro intelligente 

La delegazione agentica non è solo una questione tecnica. È, prima di tutto, un punto di svolta culturale. 

Il lavoro non scompare. Si ricompone. Le persone progettano, monitorano, interpretano. Gli agenti eseguono, aggregano, apprendono. È una collaborazione inedita, che ridisegna ruoli e competenze in profondità. Il valore non si misura più in agenti installati o ore risparmiate, ma da quanto velocemente — e con quanta consapevolezza — l’organizzazione trasforma informazioni sparse in azioni coordinate. Da quanto quella trasformazione è sostenibile, scalabile e, infine, profondamente umana. 

La competenza del futuro non è tecnica: è orchestrale. 

Chi saprà guidare questa transizione non sarà il tecnico che controlla variabili, ma chi riconosce ogni strumento, ne rispetta il ruolo e sa che il risultato nasce solo dall’insieme. Non si tratta di cedere il controllo per paura o pigrizia, ma di costruire una fiducia nuova. Quella fiducia che permette di affidarsi, sapendo che dall’altra parte — umana o artificiale — 

c’è qualcosa che lavora con te, non per te. 

Ma c’è un paradosso finale da considerare. Più deleghiamo, più diventiamo dipendenti dalla nostra capacità di valutare se la delega stia funzionando. Non possiamo delegare il senso critico. Possiamo delegare l’esecuzione, l’analisi, persino la decisione. Ma il giudizio finale, la capacità di dire “questo ha senso” o “qualcosa non torna”, quella resta irriducibilmente umana. 

Forse è questo il senso più profondo della delega: non un modo per fare di meno, ma per conservare energie mentali per ciò che conta davvero. Quello spazio dove l’intelligenza artificiale si ferma e inizia l’intuizione, l’empatia, il giudizio contestuale.

È un equilibrio difficile. Ma è l’unico che permette di arrivare dove, da soli — umani o macchine — sarebbe stato impossibile. 

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