“Dall’aura all’algoritmo: la metamorfosi della creatività”


L’intelligenza artificiale è ormai una presenza costante e capillare nella quotidianità di ognuno di noi. Dalle ricette di cucina alle spiegazioni di concetti complessi, dalle traduzioni istantanee alla produzione di testi e immagini, l’IA si è insinuata in ogni sfera del sapere umano, rendendo labile il confine tra assistenza e sostituzione. Il suo avvento ha sollevato questioni non solo di ordine tecnico o economico, ma soprattutto temi di carattere filosofico e giuridico, queste ultime da sempre sono intrecciate quando l’uomo ridefinisce il senso stesso del “creare”.

Sul piano filosofico, è inevitabile richiamare Walter Benjamin e il suo celebre saggio “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”. Benjamin aveva intuito che ogni progresso tecnologico nella produzione artistica, dalla fotografia al cinema, non si limita a introdurre nuovi strumenti, ma trasforma il concetto stesso di autenticità. La copia meccanica, per lui, non è solo un duplicato, ma una nuova esperienza collettiva: priva dell’“aura” dell’unicità, eppure dotata di un potere democratico e diffuso.
Oggi, con l’intelligenza artificiale, questo processo giunge alla sua forma più estrema. Non è più soltanto l’opera a essere riprodotta, ma la creatività stessa a essere replicata. L’IA non imita più: genera. E nel generare, confonde i confini tra umano e artificiale. Testi, immagini, musiche originali, o presunte tali, emergono da algoritmi capaci di “apprendere” e rielaborare ciò che è umano fino a renderlo indistinguibile da ciò che umano non è.
Così come la macchina fotografica aveva ridefinito l’atto del vedere, l’intelligenza artificiale ridefinisce l’atto del creare. È la nuova frontiera del dilemma benjaminiano: se la riproduzione tecnica aveva tolto all’arte la sua aura, la riproduzione algoritmica rischia di dissolvere la distinzione stessa tra autore e copia, tra mente umana e processo meccanico.
È proprio in questo punto di contatto tra filosofia e tecnologia che si apre una riflessione giuridica: se l’arte perde l’aura dell’unicità, il diritto deve ora decidere chi possieda, e se qualcuno possa ancora possedere, l’aura della paternità creativa.

Da questo interrogativo filosofico scaturisce un nodo giuridico altrettanto complesso: a chi appartiene un’opera generata da intelligenza artificiale?
Secondo la concezione tradizionale, il diritto d’autore tutela le opere dell’ingegno di carattere creativo quale espressione della personalità dell’autore. La Convenzione di Berna e le normative nazionali (tra cui la Legge italiana n. 633/1941) fondano tale tutela su un presupposto imprescindibile: l’intervento umano.
L’IA, priva di personalità giuridica e di intenzionalità, non può dunque essere titolare di diritti d’autore. Tuttavia, la sua partecipazione al processo creativo genera nuove e controverse sfumature interpretative.

Le figure coinvolte sono tre:
Il programmatore, autore dell’algoritmo. Alcuni ritengono che egli possa essere considerato “autore mediato”, ma la dottrina prevalente colloca la sua tutela nel diritto dei brevetti o del software, non in quello d’autore, poiché il suo apporto è tecnico, non espressivo.
L’utente, colui che fornisce l’input o il prompt che determina il risultato finale. Solo se l’intervento umano è creativo e determinante nella forma espressiva dell’opera, è possibile riconoscere una co-autorialità o una titolarità derivata. È il principio del human contribution requirement: la creatività deve superare la mera impostazione generale.
Gli autori originari delle opere su cui l’IA si è addestrata. In questo caso entra in gioco la legittimità dell’uso dei dati di addestramento: se il modello ha appreso su contenuti protetti da copyright, può configurarsi una violazione dei diritti patrimoniali d’autore.

Gli articoli 3 e 4 della Direttiva 2019/790/UE (sul diritto d’autore nel mercato unico digitale) consentono l’estrazione di testi e dati (text and data mining) solo a determinate condizioni: l’uso deve essere lecito e l’autore può opporsi espressamente alla riproduzione delle proprie opere. Questi principi si riflettono anche nella giurisprudenza internazionale. Negli Stati Uniti, il caso Thaler v. Perlmutter (Corte d’Appello, 2023) ha ribadito che un’opera creata interamente da una macchina non può essere oggetto di copyright, poiché la legge tutela solo creazioni “by a human author”.
Nel dibattito giurisprudenziale internazionale emergono poi controversie, reali o potenziali, come le azioni promosse contro Meta e Midjourney, in cui si discute della liceità dell’uso di opere protette per l’addestramento dei modelli IA e della generazione di immagini riconducibili a personaggi coperti da copyright. Questi esempi mostrano come la frontiera del diritto d’autore si stia spostando dal prodotto all’algoritmo stesso.

In un contesto in cui l’intelligenza artificiale può apprendere da milioni di opere, rielaborarle e restituirle in forme nuove, il concetto di proprietà intellettuale appare sempre più anacronistico.
Se il diritto d’autore nasce per garantire esclusività, oggi rischia di frenare la condivisione e l’evoluzione del sapere. Per questo, alcuni propongono modelli alternativi di valorizzazione delle opere e della creatività.
Uno spunto, volutamente provocatorio, è che la proprietà intellettuale, così come concepita oggi, andrebbe abolita o profondamente riformata. Tutti noi, in fondo, siamo il risultato di una catena infinita di influenze: ogni idea nasce da altre idee, ogni invenzione da altre invenzioni, ogni creazione da un intreccio di conoscenze condivise. Pretendere che esista una paternità assoluta, in un mondo di contaminazioni continue, è una finzione romantica, utile in un’epoca industriale, ma ormai inadeguata alla logica reticolare e collaborativa del sapere digitale.

L’intelligenza artificiale, con la sua capacità di apprendere e ricombinare contenuti preesistenti, non fa che rendere manifesto ciò che è sempre stato vero: la creatività non è un atto isolato, ma un processo collettivo e cumulativo. A questo si può aggiungere che una riforma non implicherebbe necessariamente l’abolizione totale del diritto d’autore, ma piuttosto una nuova concezione del valore dell’opera e della sua diffusione.
Si potrebbe, ad esempio, immaginare un sistema in cui la prima copia di un’opera mantenga un valore economico più elevato, come forma di riconoscimento per l’originalità iniziale e per chi sceglie di investire per primo, mentre le copie successive diventino via via più accessibili e distribuite liberamente.

In questo modo, la riproducibilità dell’opera non sarebbe più un danno economico, ma uno strumento di democratizzazione della cultura: chi desidera la versione “prima”, autentica, continuerà a pagarne il valore, mentre chi vi accede in seguito contribuirà ad arricchire, modificare, reinterpretare l’opera stessa.
Esempi come il software open source mostrano chiaramente come la condivisione non escluda la qualità, anzi la incentivi. Altri modelli già esistono: sistemi in cui un’opera rimane tutelata per un periodo limitato e poi entra nel dominio pubblico, o meccanismi di licenza progressiva che modulano il diritto di utilizzo nel tempo.
Ciò non significa trascurare la necessità di proteggere chi investe in ricerca e sviluppo: anzi, un sistema equo dovrebbe garantire un ritorno economico proporzionato all’impegno e al rischio iniziale, ma senza sacrificare l’accessibilità e la circolazione delle idee.

In definitiva, l’obiettivo non dovrebbe essere la difesa del possesso, ma la valorizzazione del contributo: spostare il diritto d’autore dall’esclusione alla partecipazione, dalla proprietà alla cooperazione.
La vera sfida giuridica, oggi, non è soltanto stabilire chi sia l’autore, ma comprendere quanto l’uomo debba restare necessario nel processo creativo: fino a che punto l’assistenza dell’IA può diventare sostituzione, senza che l’opera perda il suo carattere umano?

Il diritto si trova oggi di fronte a una scelta epocale: difendere l’idea romantica dell’autore solitario o accogliere la nascita di una creatività condivisa tra uomo e macchina.
Forse, la vera sfida non è decidere chi sia l’autore, ma comprendere se l’umanità sia pronta a rinunciare alla proprietà delle idee per abbracciare una nuova forma di libertà intellettuale.
In fondo, se ogni opera nasce da un’altra, possiamo davvero dire che qualcosa sia mai del tutto nostro?
O siamo tutti soltanto parte di un’unica, infinita intelligenza collettiva?

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