Ogni volta che viaggiamo all’estero e raccontiamo di essere italiani, assistiamo alle reazioni più disparate, generalmente un misto tra divertimento e ammirazione. È dunque lecito chiedersi quale sia l’immagine di sé che l’Italia ha esportato nel mondo: è solo quella di un Paese votato alla bellezza e al piacere o è anche il riflesso di un sistema produttivo capace di trasformare cultura e identità in valore economico?
Il Made in Italy si colloca in questo spazio di confine tra percezione e mercato, tra stile di vita e strategia commerciale: non è solo un marchio, ma un capitale simbolico che genera desiderio, orienta i consumi e costruisce la reputazione di quello che Dante Alighieri chiamò “il bel Paese”. Ma perché il Made in Italy è così amato, così ricercato e così competitivo a livello globale? Cosa rende questa combinazione di estetica, tradizione e visione così potente da imporsi come modello aspirazionale oltre i confini nazionali?
Per rispondere a queste domande, è necessario innanzitutto scandagliare le idee “grezze” associate all’Italia. Lo studio L’Italia vista da fuori. Piccola indagine sulla percezione dell’Italia secondo gli insegnanti di italiano nel mondo di Paolo E.Balboni, condotto nel 2022, ha raccolto le percezioni e le opinioni di stranieri residenti all’estero sull’Italia e sugli italiani, realizzando una sorta di analisi dei “bias” cognitivi culturali. Le opinioni del campione intervistato sono molteplici: italiani mammoni, cristiani, rumorosi, scansafatiche (“passano il tempo a bere caffè e chiaccherare, perdono tempo”) e prolifici; donne casalinghe e uomini passionali e gelosi; dicotomia territoriale fra Nord-ricco e Sud-arretrato; burocrazia lenta e inefficienza dei servizi. Non manca, nell’immaginario collettivo, l’accostamento dell’Italia alla criminalità organizzata, alimentato da prodotti audiovisivi come Il Padrino e Gomorra.
Naturalmente, c’è il rovescio positivo della medaglia: l’Italia del buon cibo, dei paesaggi mozzafiato e del sole sempre splendente, delle persone che cantano e della qualità di quelle che Balboni chiama “le 4F: fashion, food, furniture, Ferrari”, fulcro del marketing del Made in Italy artigianale e manifatturiero. Citando testualmente una delle testimonianze riportate nello studio di Balboni, “l’Italia è spesso vista ‘da turisti’, come un paese di sole, mare, musica e amore, in cui tutti sono allegri, aiutati dal clima mite, si godono la vita, sono eleganti e cantano bene […]”.
Pur riconoscendo l’esiguità del campione di persone analizzato, lo studio conferma come il nostro Paese e il nostro popolo appaiano nel mondo e l’identità a questo associata.
Il progetto di ricerca BE-Italy di IPSOS conferma queste percezioni a livello statistico: lo studio del 2024, che ha coinvolto 22 Paesi, ha rivelato che l’Italia viene percepita come “ricca di cultura e di benessere, varia e accogliente dal punto di vista umano”, seppur con molte arretratezze sul fronte socio-economico e dell’innovazione tecnologica. E quando si tratta di acquisti, il 48% degli intervistati ha dichiarato che l’origine italiana è determinante nella scelta dei prodotti. L’eccellenza italiana viene particolarmente apprezzata nell’artigianalità dei prodotti enogastronomici, nello stile ricercato dei brand di lusso e nella ricchezza del nostro patrimonio artistico, architettonico e paesaggistico, capace di attirare ondate di turisti e fatturare milioni di euro ogni anno, anche grazie alla presenza capillare di siti patrimonio UNESCO.
Se ci pensiamo, il “brand-Italia” è alla pari di un prodotto esportato nel mondo e ha contribuito alla creazione di un immaginario collettivo permeato da qualità, gusto, bellezza e quel pizzico di atmosfera onirica che avvolge il “mito italiano”, l’italian dream e lo stile di vita edonistico della celebre dolce vita felliniana. Nei decenni successivi alla “Dolce Vita” (1960), la prospettiva idilliaca e romanticizzata dell’Italia è andata in scena a più riprese tramite moltissimi prodotti cinematografici globali come Eat, Pray, Love (2010), Call me by Your Name (2017), Under the Tuscan sun (2003), Letters to Juliet (2010) e tramite campagne pubblicitarie internazionali con scenari da sogno, come Devotion e Light Blue di Dolce&Gabbana.
Quest’interpretazione del Made in Italy, più culturalmente orientata, ci permette di estendere l’analisi oltre le dinamiche commerciali. Un lifestyle che ha superato i confini geografici, trasformandosi in un linguaggio universale e parlando al mondo attraverso i sensi: l’arte sartoriale, dallo stile sobrio e dai materiali ricercati; la cucina regionale che racconta la propria storia attraverso colori, profumi e sapori. E ancora, il modo tutto italiano di celebrare il tempo, fermandosi per un pranzo lungo davanti a una tavola imbandita o per assaporare un caffè. Forse è proprio questo sentimento onirico, questo culto estetico che non grida ma seduce, la nostra più grande esportazione nel mondo.
Tuttavia, in questo immaginario si annida il rischio di ridurre una cultura complessa a una cartolina suggestiva, incentivando i cliché e gli stereotipi del sole perpetuo, degli italiani “passionali e rumorosi che gesticolano”, della tavola sempre imbandita, delle famiglie numerose con le grandi matrone che indossano il grembiule e i “capi famiglia”: ecco che l’Italia rischia di diventare la caricatura di sé stessa. Sul piano economico invece, sempre più spesso ci si imbatte nei fenomeni di contraffazione dei marchi originali o dell’italian sounding, ovvero l’utilizzo di elementi testuali e/o visivi che rimandano all’Italia nel packaging o nella pubblicità di un prodotto (spesso cavalcando l’onda degli stereotipi già citati), traendo in inganno il consumatore e facendogli credere di star acquistando un prodotto 100% Made in Italy quando in realtà non lo è. A tal proposito, è emblematica una delle riflessioni riportate all’interno dell’indagine IPSOS: “In generale, il Made in Italy continua ad essere un modello a cui aspirare per molte realtà produttive anche all’estero […]. All’interno di questo contesto, l’italian sounding e la contraffazione sono un segno di quanto il Made in Italy sia un brand ambito a livello globale”.
È necessario ricordare, però, che ogni stereotipo nasce da un nucleo reale, da una verità emotiva riconosciuta e condivisa. Il problema non sta solo nell’iper-semplificazione dell’Italia e della sua cultura, ma anche – e soprattutto – nella perdita di profondità: non dovremmo mai dimenticarci che il Made in Italy affonda le sue radici nella nostra tradizione territoriale, caratterizzata dalle diversità culturali regionali che spesso sono abissali, figlie di un popolo storicamente frammentato. È un patrimonio culturale che non si esaurisce nella “cartolina”, ma che continua a vivere nelle mani degli artigiani, negli storici quartieri italiani, nei piccoli borghi, nei dialetti e nei vecchi ricettari di famiglia.
L’Italia e la cultura del “Made in Italy” non sono né solo stereotipo né pura realtà, ma una narrazione collettiva che mescola verità e aspirazione, e forse è proprio in questa dicotomia che si cela il nostro fascino. Il mondo ama l’Italia e il Made in Italy perché, in fondo, ama l’idea che la propria vita possa avere i colori brillanti di un’opera d’arte e che da qualche parte esista ancora un luogo – reale o immaginato – dove il bello non è un’eccezione, ma una forma quotidiana di felicità.