La cultura del consumismo rapido ha trasformato il concetto di valore in qualcosa di effimero e momentaneo. Oggetti un tempo considerati durevoli e significativi hanno oggi un’obsolescenza programmata che li destina a un rapido declino, riducendo la loro longevità e il loro valore a qualcosa di effimero e transitorio. C’è però un’unica eccezione a questa tendenza: le gemme. La loro durevolezza nel tempo le rende immuni all’oblio. I gioielli, infatti, non vengono mai davvero abbandonati; si trasformano in testimoni di storie familiari e legami affettivi, diventando un patrimonio che trascende il valore materiale. Ma allora, qual è il vero valore di una gemma?
Il concetto di valore, secondo la definizione economica, non si limita semplicemente alla sua valutazione monetaria, ma si estende al tempo e alle risorse investite nel suo processo di realizzazione. Ed è qui che emerge l’altro lato della medaglia. Spesso si dimentica che dietro a ogni oggetto c’è una storia che comincia molto lontano, in luoghi dove le dinamiche economiche, sociali e normative sono diverse da quelle a cui siamo abituati.
Nel continente africano si trova circa il 30% delle riserve minerarie mondiali e la ricchezza mineraria costituisce un pilastro fondamentale della loro economia. L’estrazione delle pietre preziose coinvolge intere comunità facendo sembrare questa risorsa un’opportunità universale. Tuttavia, dietro a questa apparente promessa di benessere si celano inquietanti realtà.
Tra il 2023 e il 2025, l’Unicef stima che circa 41,4 milioni di bambini africani siano impiegati in forme di lavoro pericoloso, inclusi molti nelle miniere di diamanti e oro. Ciononostante, il problema del lavoro minorile non è l’unico aspetto oscuro che affligge il business delle gemme. I diamanti, infatti, sono stati a lungo al centro di conflitti armati, alimentando guerre civili in paesi come la Sierra Leone, la Liberia e la Repubblica Centrafricana. I cosiddetti “diamanti insanguinati” sono stati utilizzati per finanziare gruppi armati e perpetrare violenze, creando un ciclo devastante in cui le risorse naturali diventano strumento di sfruttamento e oppressione, piuttosto che di sviluppo per le popolazioni locali.
Proprio nella Repubblica Centrafricana, l’embargo sulle esportazioni di diamanti è stato revocato nel 2024 grazie al Kimberly Process, una certificazione internazionale che assicura che i diamanti non provengano da zone coinvolte in conflitti armati. Questo dovrebbe essere visto come una vittoria in termini di riconoscimento della responsabilità e dei diritti umani, ma non può che sollevare dei dubbi: quanto può davvero il semplice commercio legale di diamanti garantire un miglioramento reale per le comunità locali, senza che finisca solo per alimentare nuovi flussi di profitto per gli investitori?
Spetta alla parte occidentale della filiera evitare scorciatoie e ottenere i minerali solo da filiere controllate. È fondamentale lasciare che l’Africa gestisca autonomamente le proprie miniere, trasformandole in un business che arricchisce le comunità locali, ma senza rinunciare a garantire che i materiali vengano reperiti esclusivamente da chi applica criteri di responsabilità sociale e ambientale. Solo così si può creare un circolo virtuoso e sostenibile, in cui i benefici non restano circoscritti a pochi, ma si distribuiscono equamente.
Diversi marchi di alta gioielleria hanno iniziato a investire nella tracciabilità delle gemme attraverso politiche che puntano al controllo dell’intera filiera. Tra queste rientrano, ad esempio, l’adozione di audit indipendenti nelle miniere, programmi di formazione per i lavoratori, partnership con fornitori certificati e l’utilizzo di piattaforme digitali che registrano ogni fase del percorso della pietra, dall’estrazione fino alla vendita.
Chopard, oltre a rispettare il Kimberley Process, ha ampliato il proprio impegno etico adottando un modello di filiere responsabili. Questo approccio prevede che oro e pietre preziose siano reperiti esclusivamente da miniere che rispettano standard internazionali di sicurezza, tutela dei diritti dei lavoratori e salvaguardia dell’ambiente.
Un esempio significativo di questa politica è l’estrazione del Queen of Kalahari, un diamante di 342 carati trovato in Botswana, Paese che negli ultimi anni ha sviluppato un sistema minerario considerato tra i più regolamentati del continente africano. O quello della collezione Insofu, ispirata dallo smeraldo da 6.225 carati estratto in Zambia, cui parte dei profitti viene destinata a supportare Elephant Family, un’organizzazione impegnata nella protezione degli elefanti e di altre specie animali in via di estinzione in Asia.
In questo modo, il valore della gemma non si limita al suo pregio materiale, ma si arricchisce di un percorso umano, diventando un mezzo per favorire la crescita di intere comunità e promuovere una filiera più etica. Tuttavia, affinché questo cambiamento sia realmente sostenibile, è fondamentale che arrivi anche dai consumatori. Acquistare in modo consapevole è il passo necessario per creare una domanda che premia la trasparenza e il rispetto dei diritti umani e ambientali. I marchi di alta gioielleria, da parte loro, giocano un ruolo cruciale, dimostrando che è possibile creare un ciclo virtuoso che unisce lusso e sostenibilità.
Forse è proprio questo il lascito più prezioso: la consapevolezza che, avvicinandosi alla natura con sensibilità, le migliori maison possano raccontare la storia del capitale umano dietro a ogni gemma, trasformandola in una vera e propria opera d’arte.