La gestione del tempo sta diventando un tema sempre più centrale ai nostri giorni. L’ampia gamma, quasi illimitata, di opportunità ed alternative a nostra disposizione ci mette in difficoltà circa le scelte da compiere. Dalle relazioni interpersonali al profilo professionale, essere in grado di dare priorità a ciò che più occorre e che più ci riempie di soddisfazione è dunque diventata una competenza imprescindibile. Inoltre, una buona organizzazione sembra essere l’unico antidoto alle giornate frenetiche che caratterizzano la vita di moltissimi e che rischiano di sfociare in problemi come il “burnout”.
Massimizzare la produttività
Quando ci si trova oberati dal proprio lavoro e si ha l’impressione di essere completamente ignari dei passi successivi da compiere, è normale rivolgere lo sguardo agli esperti. Facendo delle (brevi) ricerche è semplice trovare le tecniche di gestione del tempo che più si sono affermate nel corso degli anni. Tra tutte la matrice di Eisenhower, che permette di categorizzare le attività tra urgenti / non urgenti e importanti / non importanti insieme all’analisi ABC; la tecnica del pomodoro, che consente di concentrare gli sforzi in un tempo di concentrazione mettendo da parte le distrazioni; i principi di Pareto, che distingue le attività tra quelle (la maggior parte) che possono essere completate nel 20% del tempo e quelle (poche) a cui invece va dedicato il restante 80%.
Forse, però, questa continua ricerca di una performance migliore e di metodi per ottimizzare il tempo non risolve in modo determinante il problema alla radice: non è sempre indispensabile (ma soprattutto non è sempre possibile) rincorrere gli obiettivi. Infatti, la salute mentale dell’essere umano è fragile e sentirsi eccessivamente sopraffatti può portare a problemi seri come il burnout.
Il rischio di burnout
Il rischio di burnout è molto concreto: definito nel 2019 dall’OMS come “fenomeno occupazionale”, non condizione medica”, in Italia il burnout colpisce ben il 50% dei lavoratori italiani (dati 2023).
Da numerosi studi condotti su larga scala si evince che, benché il problema possa riguardare il singolo individuo, si tratta solitamente di qualcosa di strutturale. Alcuni ambienti di lavoro, per esempio, promuovono standard eccessivamente elevati di produttività, facendo dell’overwork un vanto tra i dipendenti; se le ore di lavoro passano da 40 a 60 a settimana, il rischio di burnout raddoppia. Anche una mancanza di allineamento tra i propri valori personali e quelli del luogo di lavoro può sfociare in tale problema. In generale, la causa strutturale che più provoca fenomeni di burnout è la tossicità dell’ambiente di lavoro, come evidenziato dal McKinsey Health Institute. Benché si tratti di un insieme di comportamenti, i principali includono mancanze di rispetto, intimidazioni, essere sminuiti.
Gli antidoti al burnout
Benché non esista una ricetta che possa risolvere un problema così complesso, ci sono sicuramente dei meccanismi che possono essere messi in atto per tutelarsi. Nei casi più seri il “cambio vita” è sempre un’opzione. Quest’inversione di rotta è stata messa in atto da molte persone (soprattutto donne) nel 2023. La difficoltà nel coniugare il ruolo da genitore con quello da professionista e dunque necessità di avere orari di lavoro più flessibili, la perdita di motivazione nel proprio lavoro, lo sviluppo di una cultura tossica nell’azienda e la difficoltà di veder riconosciuti i propri meriti con una progressione in carriera sono solo alcuni dei motivi che portano a compiere questo passo. Anche la pandemia ha contribuito a far riflettere le persone sulle loro reali inclinazioni, aumentando gli incentivi per contrastare la dissonanza tra passioni personali e ruolo professionale.
Non tutti però possono permettersi di compiere serenamente una scelta tanto radicale e soprattutto non sempre è necessario ricorrere a questo rimedio. La risposta a mio avviso più efficace e convincente è quella che possiamo trovare nell’articolo “Time management won’t save you” scritto da Dane Jensen e uscito sull’Harvard Business Review.
“Time management won’t save you”
In questo articolo, l’autore suggerisce tre meccanismi da mettere in atto per gestire al meglio il tempo a nostra disposizione (soprattutto sul lavoro):
- Scegliere: spesso cadiamo nella trappola di annotare solo i nostri impegni con altre persone sul calendario; tuttavia, anche la nostra “to do list”, ossia le attività che dobbiamo completare anche in singolo, dovrebbero farne parte in quanto richiedono tempo e concentrazione; questo ci aiuta ad evitare di sovrastimare le nostre possibilità;
- Semplificare: il sovraccarico cognitivo è una condizione reale; come suggerito da Tim Ferris, al fine di non perdere tempo, bisogna cercare di evitare le decisioni che aprono ad una serie di altre decisioni in sequenza; l’esempio emblematico è quello di Steve Jobs che, per non doversi trovare a scegliere ogni giorno l’abbinamento degli outfit, aveva optato per un outfit standard da usare in tutte le occasioni;
- Strutturare: pensare di riuscire a vincere le distrazioni con la sola forza di volontà è qualcosa di irrealistico in un mondo che sfrutta la nostra cosiddetta “vulnerabilità psicologica”. E’ importante saper sconnettere nel momento in cui è necessario e dedicare dei momenti in cui possiamo invece essere reperibili. Ciò che traspare dall’analisi di Jensen è che spesso tendiamo (per via anche delle aspettative del mondo esterno) a sovrastimare le nostre capacità (o almeno, gli standard che dovremmo rispettare), perdendo di vista la nostra umanità. Come sottolineato da Jensen, tendiamo sempre a fare in modo di massimizzare la nostra produttività eliminando qualsiasi tempo morto o “improduttivo”. Così facendo, però, rischiamo di inserire all’interno della nostra routine un numero sempre maggiore di attività, non diventando produttivi ma semplicemente “occupati”.
Cosa fare?
Persino una visione cinica e calcolistica della situazione suggerisce che servano cambi di direzione in tal senso. Anche da un punto di vista economico si tratta infatti di una grossa perdita, che l’OMS avrebbe fatto ammontare a circa 1000 miliardi di dollari. Ansia e depressione tengono infatti le persone lontane dal lavoro per 12 miliardi di assenze annue. Come suggerito da diversi articoli del Sole 24 Ore, è irrealistico pensare che l’individuo possa reggere mentalmente e senza alcun supporto esterno le innumerevoli pressioni quotidiane. Poche persone si sentono a loro agio nel parlare di salute mentale sul lavoro, pertanto è necessario che si mettano in atto delle strategie di formazione per sviluppare competenze legate alla gestione dello stress, capacità di comunicazione, coaching, leadership e finalmente gestione del tempo. Tutto questo, però, non perdendo mai di vista la nostra umanità, che è fatta anche di distrazioni, difficoltà ed imprevisti.