Beata solitudo, sola beatitudo


Dove nasce la grandezza: la forza creativa dell’isolamento

Io non lo so cosa ne sia di questo cuore. Talvolta freme più di quanto dovrebbe, altre volte sembra non rispondere ad alcun impulso.

Spesso mi sono considerato un solitario, senza chiedermi mai davvero se fosse per scelta o per necessità. Immagino che la mia solitudine non sia altro che la dimora che ho sempre desiderato.

Tempo fa mi trovai a ragionare su un sogno ricorrente: mi trovavo all’interno di una casa, e inoltrandomi per scuri corridoi che conoscevo a memoria, raggiungevo una parte completamente disabitata. Era familiare, ma non v’ero mai stato; sapevo arrivarci senza bisogno di nient’altro che la volontà. 

Era tutto ciò che avevo sempre desiderato. Un ampio salone dal mobilio antico era illuminato dalla luce che filtrava attraverso una parete di vetro lunga diverse decine di metri. Il giardino era curato all’inglese e un recinto di pietra ne delineava i confini. Vi era anche uno studio, in una stanza adiacente. 

Sebbene oggi sia difficile restituire la bellezza silente di quel complesso, come spesso accade il vero significato non risiedeva nella forma, ma nella rivelazione. Quelle sale erano il prolungamento di una casa che sentivo di dover conoscere bene, una parte raggiungibile solo passando per vie incerte e oscure che non avevo mai attraversato prima. 

Il sogno si ripresentò molte volte, con gli stessi colori, le stesse sensazioni e le medesime distanze.

Prima ancora di poterne parlare, scoprii che anche Jung aveva vissuto un’esperienza simile: in un sogno ricorrente, esplorava stanze sconosciute della propria dimora interiore; ambienti antichi e silenziosi, biblioteche di simboli e manuali d’alchimia – spazi mai abitati, eppure intimamente suoi. Secondo Jung, la casa onirica raffigurava la personalità stessa: quelle stanze inesplorate simboleggiavano territori psichici pronti a dischiudere nuove visioni e intuizioni, parti di sé da abitare.

Così, quella zona remota della mia casa non era altro che una parte dell’inconscio che troppo spesso avevo voluto disconoscere. Oggi comprendo che, per me, quel luogo era la solitudine: ciò che per anni ho avvertito come una prigione imposta dal mondo esterno o dalla sorte, era un salone ampio, pulito, di un’eleganza aristocratica, semplice. Non era altro che la bellezza di un giardino vissuta dal riflesso di una vetrata; nient’altro che uno studio vivo, sicuro.

La mia solitudine è il luogo più bello in cui io sia mai entrato, ed il più difficile da raggiungere.

Ti chiederai, avendo letto fin qui, perché io ti parli di tutto questo.

Credo che ciascuno di noi debba rivalutare la propria intimità, studiarla e goderne in ogni suo aspetto. La lontananza dagli altri, anche solo per qualche giorno, non dovrebbe mai essere vissuta come sofferenza, ma come una benedizione.

Rischiare la solitudine e l’incomprensione è la via per la quale il vero successo prende piede, il laboratorio invisibile dove l’autenticità può decantare, definire sé stessa e rivelarsi. È lì, nei giorni sospesi, privi di voci esterne, che la mente si apre al lavorio lento dell’intuizione e l’anima può interrogarsi davvero. 

Si potrebbe dire che il genio nasca spesso da una distanza volontaria. I Led Zeppelin lo avevano compreso quando, fuggendo dal frastuono e dalle pressioni dell’industria, si ritirarono a Headley Grange, un antico maniero inglese immerso nella bruma. Lì, tra muri umidi e stanze spoglie, nacquero suoni che non appartenevano a nessun luogo, come se il silenzio stesso avesse potuto raccontarci della loro intimità. Allo stesso modo, Stanley Kubrick si isolava per anni nel suo maniero nel Hertfordshire, consumando la lentezza come un imperativo: l’idea maturava finché non diventava necessità, e il film non era più un progetto, ma rivelazione e confessione allo stesso tempo. Così anche Elon Musk, che durante il lancio della Tesla Model 3, dormiva direttamente in fabbrica, tra impianti e catene di montaggio, spesso per settimane consecutive. Scelse il sacrificio e la distanza dal mondo esterno come risorsa per spingere al massimo la propria lucidità e capacità creativa, trasmettendo questa etica anche ai suoi collaboratori e rendendo l’isolamento una vera e propria strategia.

Ogni solitudine consapevole diviene in questo modo un laboratorio segreto, dove la voce del mondo esterno si dissolve e ciò che resta è la misura esatta del proprio pensiero, la possibilità di ascoltarlo in purezza.

L’uomo ed il leader che sa abitare il proprio vuoto, ne fa terreno fertile: trasforma gli intermezzi di distanza in spazi di elevata elaborazione creativa, converge dispersione in visione.

È in questo modo che la lontananza diviene il più potente catalizzatore di sintesi; le ambizioni si misurano, i sogni si coniugano con la disciplina e la strategia si purifica e risorge, immune al rumore.

Sogniamo di poter esser grandi, di avere la rabbia e l’ardore che contraddistinguono il genio.

Ci immaginiamo nei più diversi teatri, fin quando la realtà non si manifesta nuovamente, riverberando una mediocrità che crediamo appartenerci. É un sentimento universale.

Secondo Svetonio, Cesare si fece condurre al mausoleo che custodiva il corpo di Alessandro, ideale assoluto di gloria militare, di conquista e di potere universale.

Nel vederlo si commosse profondamente. Rimase a lungo in silenzio, riflettendo sul confronto tra la propria vita e quella del grande sovrano.

“Adesso, alla sua età, Alessandro aveva già conquistato il mondo; e io, cosa ho fatto?”

Inganniamo e avviliamo noi stessi. 

La nostra paura più profonda non si definisce nell’inadeguatezza, ma nell’essere potenti oltre ogni misura. È la nostra luce, non l’oscurità, che più ci spaventa. 

Siamo tutti destinati a brillare, e nel concederci la luce, inconsciamente diamo agli altri il permesso di fare lo stesso. Quando ci liberiamo dalla paura, la nostra stessa presenza libera chi ci circonda.

Eravamo bambini, quando ancora potevamo scoprire qualcosa di ignoto; dopo esserci inoltrati al di là dell’opportuno, guardavamo quanto bastava per poi correre indietro e trovare quella persona con la quale si poteva condividere tutto. Solo a lei si voleva descrivere il proprio nuovo mondo, la nuova scoperta. Solo con lei potevamo sentirci esploratori, coraggiosi, per una volta. Si faceva finta di nulla di fronte agli sguardi interrogatori degli adulti, ma ci si guardava con la complicità degli archeologi, con l’intimità dei ladri. 

Oggi, nella nostra più profonda solitudine, possiamo integrare esploratore e testimone. 

Preserviamo la nostra curiosità, esploriamo le nostre paure ed i nostri interessi più reconditi, ridiamo e gioiamo nella consapevolezza della nostra grandezza. 

Possiamo attraversare corridoi scuri e saloni dimenticati, aprire porte che un tempo ci erano ignote, e accogliere le nostre scoperte con meraviglia e delicatezza…

Perciò, caro signore, amate la vostra solitudine e sopportate il dolore che essa vi procaccia con lamento armonioso. 

Ché quelli che vi sono vicini, voi dite, vi sono lontani, e ciò mostra che intorno a voi comincia a stendersi lo spazio. E se la vostra vicinanza è lontana, allora la vostra vastità è già sotto le stelle e molto grande; rallegratevi della vostra crescita, in cui non potete menare alcuno, e siate buono verso quelli che rimangono indietro, e sicuro e tranquillo, di fronte a loro, non li tormentate con i vostri dubbi e non li sgomentate con la vostra fiducia o allegrezza, che essi non potrebbero comprendere.

RAINER MARIA RILKE

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