Abbiamo incontrato Christian Christodulopulos, alumno di JEME e oggi Partner di OC&C, per ripercorrere il suo cammino dalle aule universitarie alla consulenza strategica internazionale e scoprire come le Junior Enterprise abbiano inciso sulla sua carriera
Partiamo da una breve presentazione: raccontaci chi sei, cosa fai oggi e qual è stato il percorso che ti ha portato fin qui
Sono Partner e Leader della Practice Private Equity e M&A di OC&C Strategy Consultants, società di consulenza strategica internazionale con sede nel Regno Unito e uffici dagli Stati Uniti alla Cina.
Il mio percorso lavorativo è iniziato con JEME, che mi ha dato le prime basi e la spinta verso la consulenza. Dopo quell’esperienza, ho svolto uno stage nel dipartimento di Fixed Income e Credit Derivatives di JP Morgan a Londra. È stato molto formativo, ma mi ha confermato che, da studente di Economia aziendale, il mio interesse era rivolto più all’impresa che ai mercati. Da lì sono entrato nella divisione Investment Banking di Goldman Sachs, sempre a Londra dove ho potuto applicare
strumenti di corporate finance direttamente sulle aziende, come desideravo.
Dopo brevi esperienze in BCG a Milano e nel Tech Team di Credit Suisse First Boston a Londra, sono rientrato in Italia con Bain. Erano gli anni in cui il Private Equity muoveva i primi passi ed io mi occupavo di operazioni straordinarie con approccio consulenziale: due diligence lato acquisto e vendita, oltre a supporto alle IPO. Sono stati anni fondamentali, durante i quali sono cresciuto molto a livello professionale e ho costruito dei legami personali duraturi.
Nel 2013, anche memore dell’esperienza in JEME e con il desiderio di avere un impatto più personale, ho scelto di entrare nel nucleo fondante (composto da 12 persone) di Long Term Partners, che si è poi fusa con OC&C diventandone l’ufficio italiano.
Cosa ti ha spinto ad entrare in JEME? E cosa ti ha motivato successivamente a coinvolgerti anche in JE Italy?
Fin dall’inizio dell’università ero affascinato dal mondo della consulenza. Ricordo un manifesto di una società che mostrava un direttore d’orchestra con la frase “facciamo lavorare insieme i talenti”. Ho ritrovato quello stesso spirito in JEME, descritta come una realtà di “studenti consulenti” e “studenti-imprenditori”. Per questo ho fatto domanda già al primo anno, nonostante la maggior parte degli associati erano studenti più avanti nel percorso universitario. Subito non venni selezionato, ma non mi arresi: il primo giorno del secondo anno mi presentai di nuovo in
sede e, grazie alla mia insistenza, ottenni un periodo di prova. È stata una lezione preziosa sul valore della perseveranza.
Le Junior Enterprise italiane erano (e sono tuttora) rappresentate a livello nazionale e internazionale. L’opportunità di trasmetterne i valori – che avevo già sperimentato in JEME – e di entrare in contatto con le altre realtà italiane era troppo importante per lasciarsela sfuggire, ed è questo che mi ha spinto a entrare in JE Italy.
Come hai vissuto l’esperienza in JE Italy rispetto a JEME? In cosa è stata diversa o complementare?
L’esperienza in JEME era molto simile a quella di una società di consulenza, mentre JE Italy ricordava di più un’associazione di rappresentanza, come Confindustria. Questo mi ha spinto a cambiare approccio: imparare a preparare le riunioni in anticipo, raccogliere e bilanciare le esigenze di Junior Enterprise provenienti da città diverse e da facoltà non solo di economia e ingegneria, ma anche di psicologia e diritto. In quel contesto ho dovuto sviluppare uno stile di leadership diverso: meno top-down e più partecipativo e inclusivo. Al contrario, JEME mi ha insegnato cosa significhi lavorare concretamente in consulenza: affrontare progetti complessi, interagire con clienti reali e assumere responsabilità di Board.
In sintesi, le due esperienze si sono rivelate complementari: JEME mi ha dato la concretezza operativa e il “mestiere” della consulenza, mentre JE Italy mi ha offerto la dimensione istituzionale e la leadership necessaria per coordinare realtà diverse.
Hai iniziato la tua carriera in investment banking e poi sei passato alla consulenza: cosa ti ha spinto a fare questo cambio?
Dopo alcune esperienze in investment banking ho capito che quello che mi interessava davvero era seguire l’azienda nel suo percorso di crescita: la consulenza strategica mi permetteva di lavorare più da vicino con i clienti sulle loro decisioni di sviluppo e trasformazione.
La differenza principale è proprio nel rapporto con il cliente: in corporate finance l’advisor ha un ruolo molto verticale, con una forte asimmetria informativa. In consulenza, invece, si affrontano temi in cui il cliente è spesso più esperto, il che porta a un dialogo più paritario, empatico e stimolante. Inoltre, il toolkit è meno specialistico ma molto più ampio, e l’aspetto relazionale diventa centrale fin da subito.
Ambienti come investment banking e consulenza sono noti per la loro intensità e velocità: come hai trovato il tuo equilibrio in questi contesti? La tua idea di “successo” è cambiata nel tempo? Che consigli daresti a chi vuole intraprendere questo tipo di carriera?
Investment banking e consulenza mettono a contatto persone talentuose con grandi sfide, offrendo un livello di esposizione, responsabilità non comuni per la propria seniority e velocità di progressione di carriera impensabili altrove, in cambio però di una intensità significativa, soprattutto in una fase della vita dove questa è più sostenibile. Ciò che continua a stimolarmi è l’interesse per i temi trattati e la varietà del lavoro: le operazioni straordinarie sono compresse nel tempo e sempre diverse, e il non sapere mai su cosa lavorerò oltre l’orizzonte di un trimestre è il massimo per una persona curiosa come me.
All’inizio misuravo il successo combinando brand dell’azienda e posizione raggiunta rispetto all’età. Questa metrica mi ha portato a scelte miopi, come rinunciare all’MBA: un’opportunità persa perché nel breve avrebbe allungato il mio percorso di carriera. Oggi per me il successo è la possibilità di fare cose che hanno impatto, come aiutare clienti in scelte importanti per loro e per il contesto economico più in generale.
A chi vuole intraprendere questo tipo di carriera consiglierei di tenere a mente questa scaletta di priorità che si alternano lungo i diversi step del percorso professionale: all’inizio conta soprattutto il what you know, dimostrare competenza ed efficacia. In seguito, diventa cruciale il who you know, e cioè la capacità di coinvolgere i giusti colleghi per risolvere un problema. Infine, ciò che fa la differenza è il who you are: la fiducia di un cliente e della tua organizzazione nei tuoi confronti dipendono da qualità etiche che prescindono competenze e relazioni. Quindi, anche nei primi passi della carriera, è fondamentale coltivare le relazioni e mantenere sempre un elevato senso etico: per un problema importante, il cliente cercherà un advisor di cui si fida, e quella fiducia nasce spesso da comportamenti coerenti adottati negli anni.
Infine, sul piano pratico, è importante mantenere in agenda attività personali, pur sapendo che talvolta potranno essere annullate: avere un programma, in genere, offre più benefici che rinunciare in partenza. Alcune fasi della carriera sono fisiologicamente meno bilanciabili e semplicemente si attraversano. Con l’esperienza, man mano che crescono competenza e autonomia, trovare equilibrio diventa progressivamente più semplice.
Guardando oggi il tuo percorso con maggiore esperienza alle spalle: consiglieresti a uno studente di entrare in una Junior Enterprise? Perché?
Assolutamente sì. Entrare in una Junior Enterprise permette di vivere già nel periodo universitario le dinamiche di un’organizzazione complessa, con un percorso accelerato che in 18-24 mesi porta a ricoprire ruoli da Junior a Senior. È un’occasione unica per osservare dall’interno processi come recruitment, marketing, commerciale e finance, anche avendo posizioni di leadership. Questo aiuta sia a comprendere meglio le organizzazioni in cui si lavorerà in futuro, sia a sviluppare competenze utili per avviare una propria attività imprenditoriale. Non a caso, molti alumniJEME sono diventati imprenditori, uno dei quali oggi guida gli industriali lombardi.
Un altro valore aggiunto è la possibilità di vedere subito l’impatto delle proprie azioni: il ciclo che parte dall’attività commerciale e arriva fino al pagamento del cliente è qualcosa che, in azienda, raramente si osserva per intero da posizioni junior.
Infine, la Junior Enterprise crea un network solido, molto più profondo rispetto a quello universitario. In atenei come la Bocconi l’appartenenza comune all’alumni network è spesso un legame debole; l’aver condiviso l’esperienza in una Junior Enterprise, invece, genera connessioni forti che superano confini di università e generazioni.
Nonostante gli impegni professionali, continui a essere coinvolto nelle Junior Enterprise, anche come membro dell’advisory board sia di JEME che di JE Italy: cosa ti motiva a mantenere questo tipo di legame?
La realtà delle Junior Enterprise è molto cambiata rispetto a quando ero associato: allora il movimento in Italia aveva appena dieci anni e non poteva contare su un network di alumni consolidato. Oggi JEME è un’associazione storica della Bocconi, e sono felice di poter “give back” con il contribuire a preservarne la memoria, supportare le decisioni strategiche e fare coaching attraverso i programmi di mentorship.
La Junior Enterprise mi ha anche regalato amicizie che durano tutt’ora ed ogni volta che partecipo a un evento del network e incontro persone like-minded – intraprendenti, entusiaste, con la luce negli occhi – è come se non me ne fossi mai allontanato.