Quando, con chi, e perché parlare di diritto a cena
Ci sono molti argomenti commestibili. Argomenti che in poche parole scendono giù. Argomenti che sono cioè commestibili nel mentre di una cena, quando indipendentemente dalla compagnia, e trovandosi fra persone istruite oppure curiose, si arriva a quel punto in cui, per deformazione professionale o per puro gusto, si vuole parlare di qualcosa. Si vuole cioè divertirsi a dire e sentirsi dire, a controbattere e vedersi rispondere, si vuole condividere e sfidare l’intelletto dell’altro. E lo si fa, per il più delle volte, in Italia e nel mondo, sfoderando quegli argomenti di cui si può dire molto senza conoscere nulla. Di cui cioè basta poco per frasi in opinione resistente al confronto e cedevole ad un buon pasto.
Uno fra questi argomenti è certamente la politica. La politica è altamente commestibile. E cioè mentre si cena, e si parla di politica, la cena scorre piacevole, anche se le opinioni sono diverse. In Italia questo succede più che nel resto del mondo, perché l’italiano è per definizione un soggetto che si appassiona alle cose. E la politica, nei salotti italiane, o sui tavoli illuminati da candele basse in attesa della prossima portata, è un oggetto appassionante, è un peccato piacevole. È una donna su cui cadono gli occhi, è punto saldo su cui si accendono i riflettori. Ma la politica non è il solo argomento commestibile. A cena si parla anche e prettamente di lavoro e di vita quotidiana, di viaggi in programma o già vissuti, ci si dilunga in piacevoli pettegolezzi effimeri, e in osservazioni su arte, filosofia, disprezzo per il mondo, e paura per il progresso.
Ma il diritto, il diritto è uno di quelli argomenti per nulla commestibili. Neppure fra giuristi, a cena, si parla di diritto. Mai. Se proprio lo si fa, ci si occupa solo di diritto penale. Il perché è semplice: come la politica, il diritto penale è appassionante. E l’italiano, lo abbiamo detto prima, è un soggetto che ontologicamente si appassiona alle cose. Il diritto penale è un braccio molto lungo, che ti prende ovunque tu sia, e ti trascina giù, in un vortice in cui tutto sembra ingiusto, e in cui ognuno è sempre pronto a dire la sua. Accoglie cioè attorno ad uno stesso tavolo anche chi di diritto non ne sa nulla, e dirà le stesse cose che passano in tv, e che spingono i giovani ad odiare la giustizia: la prescrizione maledetta amica dei colpevoli, i magistrati corrotti e senza cuore, e gli avvocati che in Italia sono troppi, tristi e senza lavoro.
Questo articolo si offre a chi vorrebbe che anche il diritto fosse commestibile. In primo luogo per avere il piacere di cenare e di discutere di diritto, senza sentirsi in difetto. E in secondo luogo perché abbiamo perso il senso del diritto. Lo abbiamo perso nel momento in cui abbiamo ascoltato le retrovie di voci tristi e spesso incolte, che ce lo hanno sconsigliato, e fatto andare storto. Voci che ci hanno fatto dimenticare quanto il mondo per secoli ci abbia invidiato, studiando su testi in latino pur di arrivare alle ossa del nostro pensiero giuridico, e fallendo, fallendo miseramente anche nell’imitazione.
La prima domanda da porsi quando si è a cena e si vuole parlare di diritto con la persona che si ha davanti, non riguarda la capacità del nostro interlocutore di capirne qualcosa, o di sapere qualcosa. I giornali forse si preoccupano se i loro lettori ne sanno o capiscono qualcosa? L’artista si preoccupa se chi guarda le sue opere ne coglie il senso che egli voleva darvi? Possono assistere all’opera solo lirici, o persone che hanno studiato musica al punto per cui lo sforzo di un tenore o soprano sia inquadrabile in regole tecniche?
Per cui la domanda da porsi non è: “Chi ho davanti capisce profondamente quello che dico?”. Questa domanda avrebbe una risposta negativa in astratto sempre, anche fra giuristi finissimi. E questo perché il modo in cui capiamo la realtà, e quindi il diritto, dipende sempre dal modo in cui decidiamo di vederla. Ed è un bene che ci sia questo disallineamento, altrimenti lo sforzo che si compie nello spiegarsi per convincere l’altro sarebbe uno sforzo inutile, sarebbe uno sforzo privo di scopo.
La domanda da porsi è: “In merito alla conoscenza che questa persona ha del diritto, mi interessa sapere come questa persona vede il diritto, e quindi la realtà?”.
Una persona incolta potrebbe avere una versione limpida e chiara del diritto, senza conoscerne nulla. Un’altra, che invece ha studiato molto, potrebbe avere opinioni diverse. Potrebbe anche infastidirci il suo modo di leggere la realtà. Anche un bambino, che a suo modo conosce il diritto approcciandosi al mondo delle regole, potrebbe essere un interlocutore interessante. L’interesse di un interlocutore non è dettato da quanto ne sa, o quanto non ne sa in merito al diritto. Un interlocutore interessante è un interlocutore che, proprio per il diverso ruolo che ricopre, proprio alla luce delle cose che non conosce, ci incuriosisce. Se si coglie questo cambio di ruoli, il fatto che il diritto non sia ancora oggi ritenuto un argomento commestibile, non può che essere un fatto sciocco, superficiale.
Quando si trova un interlocutore adatto, si inizia a dialogare. Lo scopo del dialogare in genere è condividere. Lo scopo del dialogare di diritto, non è condividere. Lo scopo è definire. Questo avviene perché il diritto è la scienza che prima di ogni altra si occupa di dare un nome alle cose. Per capire meglio lo scopo del dritto, e senza perdersi dietro a ragionamenti filosofici molto complessi, immaginate -sarà successo più o meno a tutti- di essere davanti ad uno scaffale del supermercato. Siete bambini molto accorti, sulla decina, e siete lì, in quel supermercato, per eseguire una classica commissione della domenica mattina, quando vostra madre è impegnata a sistemare casa per il pranzo, e vi ha commissionato una delle sue solite dimenticanze. Siete andati a comprare il condimento per la pasta della domenica, e ci siete andati svogliati, e con l’intenzione per questo di non sbagliarvi, di prendere ciò che vi serve e tornare a casa. Avete uno scaffale davanti a voi con centinaia e centinaia di bottiglie rosse, bottiglie in vetro, di diverse altezze: sugo di pomodoro, salsa di pomodoro, passata di pomodoro, concentrato di pomodoro. Immaginate di non sapere scegliere. Immaginate di dover scegliere per forza, perché siete lì per comprare qualcosa. Questa è la situazione del giurista costantemente: il giurista deve dare il nome alle cose, e deve spiegare cosa significhi quel nome. Deve spiegare che differenza c’è ad esempio fra efficacia, effettività ed efficienza. Deve spiegare che differenza c’è fra obbligo e obbligazione, fra potere e potestà, fra volontà e volontarietà, fra decadenza e prescrizione, contratto e accordo, dolo eventuale e colpa cosciente. E perché questo deve farlo il giurista, e non può farlo ad esempio il legislatore? Perché il legislatore ci prova, ma non sempre ci riesce. Spesso ad esempio utilizza gli stessi termini in ambiti diversi. Oppure sfugge alle definizioni che sono a lui più complesse, lasciando che siano giurisprudenza e dottrina a doverle definire. Per questo attorno ad un tavolo i giuristi si incontrano, e non sempre in situazioni formali: spesso succede tranquillamente, come abbiamo immaginato all’inizio. Per caso, nel mezzo di una cena, fra una portata e l’altra. E lo scopo è sempre lo stesso: definire. E se ci si riesce, che si fa? Se si riesce, lì si inizia a condividere. Ma la condivisione è successiva. Prima si ha l’esigenza di capirsi. Non si può cucinare una buona pasta al pomodoro senza prima sapere quale ingrediente ci serve. Se la salsa, la passata, il sugo, oppure nessuna delle tre, perché magari ci servivano solo degli ortaggi freschi. E se non si riesce a dare un nome alle cose? Si continua a cercare. E lo si fa cambiando idea nel mentre. E quale è lo scopo del trovare uno scopo, e cioè a che serve dare un nome alle cose, a che serve sapere se mentre si discute ci si riferisce veramente alle stesse cose? Serve a definire la realtà.
E a che serve definire la realtà? Serve a comprendere i fenomeni che ci circondano, dai più banali, come una pasta al pomodoro, ai più disastrosi, e avere in ogni momento la prontezza di poter esprimere, tramite la nostra opinione, una soluzione intelligente e cosciente, che tenga in considerazione quante più variabili possibili. Assistiamo a due guerre, e chiedersi cosa è una guerra, ad esempio, è quanto di più nobile ci sia. Che cosa è una guerra, e c’è differenza c’è, se c’è, fra guerra e conflitto, o fra guerra e lotta? E perché in latino guerra si dice bellum? Perché notiamo questa violenta similitudine con il termine bello, che nulla ha a che vedere con guerra? E ancora: abbiamo assistito di recente alle elezioni del presidente degli Stati Uniti d’America. Che cosa significa votare? Perché esiste il diritto di voto? E che cosa significa presiedere una nazione? E che differenza c’è , se c’è, fra nazione e stato? E fra stato e paese? Potrei continuare ancora e ancora, spostandomi su altri temi, altrettanto scottanti negli ultimi mesi: che cosa è un dato? Perché si dovrebbe tutelare un dato? Quali dati sono tutelati della legge? Chi è un essere intelligente? E che differenza c’è fra la mia intelligenza, e quella di un robot? Dovremmo in poche parole fare quello che facevamo quando eravamo bambini. Chiederci il perché delle cose, essere polytropos, navigare nei nostri dubbi, e smettere di credere che la realtà sia sempre e solo quella che ci appare, quella che ci sembra. Anche su questo i giuristi dibattono ancora oggi: quando possiamo dire che ciò che appare, in realtà è? Quando possiamo dire che una persona esiste? Che un diritto esiste? E quando un diritto muore? C’è differenza fra il diritto e i diritti?
Tornando a noi: a che serve definire la realtà? Serve, in sintesi, a vivere con meno paura e con più gioia. Sapendo che almeno di qualcosa, si può avere certezza: le cose cioè che si è riusciti a definire, e a cui si è dato un nome.