Disinteresse o strategia? John Nash ci spiega perché i referendum con quorum disincentivano la partecipazione elettorale


Abbiamo davvero bisogno di uno strumento di democrazia diretta come il referendum in una democrazia rappresentativa? Ed è corretto che solo questo strumento, limitato a decisioni legislative specifiche, debba convivere con il fardello del quorum? a differenza delle elezioni che facciamo per eleggere i rappresentanti? Il referendum, proprio per come è regolato in Italia, si è trasformato in un paradosso democratico. La regola del quorum – che impone la validità del voto solo se partecipa almeno il 50% + 1 degli aventi diritto – ha di fatto ribaltato la logica della partecipazione: chi è contrario a una proposta ha interesse a non votare, anziché esprimere un “no”.

Il risultato è evidente: fino al 1990 il quorum è stato raggiunto in 39 dei 67 referendum. Ma dal 1997 in poi, con la sola eccezione del 2011, nessun referendum ha più superato la soglia. Non si può attribuire il fenomeno soltanto alla disaffezione politica: è il meccanismo stesso, infatti, a premiare l’astensione strategica. Anche la comunicazione politica riflette questo squilibrio. 

Un altro elemento contraddittorio è il confronto con le elezioni politiche: lì non esiste alcun quorum. Perché allora un referendum, spesso su temi meno tecnici e più divisivi, deve affrontare una soglia così alta per essere valido, nonostante la scelta su cui si esprime è di fatto circoscritta?

Se l’obiettivo del sistema democratico è incentivare la partecipazione elettorale, muovendosi sulla sottile linea del diritto/dovere, non si può permettere che le regole favoriscano l’astensione. 
Analizzando l’ultimo referendum sotto la lente della teoria dei giochi, esso può essere rappresentato in maniera semplificata con un’interazione strategica a due giocatori dove entrambi hanno due strategie: “votare” e “non votare”. Nella situazione attuale con quorum, il gioco è a somma non nulla a causa dell’impatto di una variabile esterna: il raggiungimento del quorum; tale variabile rende il gioco “sbilanciato” a favore dei contro che potrebbero potenzialmente ottenere il proprio risultato desiderato (il fallimento del referendum) sia votando che non votando. Approfondiamo l’analisi tenendo conto delle ipotesi sul contesto istituzionale e dei beliefs (cioè le aspettative soggettive di un giocatore riguardo alle azioni o ai tipi degli altri giocatori) e soprattutto, come richiesto dalla teoria dei giochi, analizzando i payoff: i contrari individuano nel non votare la propria strategia dominante, ovvero quella che massimizza il loro rendimento indipendentemente dalle scelte altrui. In altre parole, hanno un forte incentivo all’astensione. Questo conduce a un equilibrio di Nash, come illustrato nell’immagine sottostante: i favorevoli votano, mentre i contrari si astengono, confondendosi così con la popolazione disinteressata

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Se invece si eliminasse il quorum, il referendum assumerebbe una forma più simile ad uno ‘zero sum game’, ossia un gioco in cui la somma dei payoff di tutti i giocatori è sempre zero per ogni combinazione possibile di strategie, il che sposta l’equilibrio del gioco verso (vota, vota) che dovrebbe garantire una maggiore partecipazione della popolazione ed una maggiore rappresentatività delle preferenze, distinguendo di netto la fetta dei partecipanti elettorali a quella dei disinteressati. 

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È quindi la presenza del quorum a causare inefficienza strategica e scarsa partecipazione, come spesso succede nei giochi con esternalità istituzionali; la sua assenza, invece, favorisce una competizione più diretta, semplificando la dinamica strategica e riducendo gli esiti subottimali.

Alla luce di tutto questo non potremmo forse concludere che il quorum sia uno strumento anacronistico? Andrebbe rivista come regola alla luce della tanto discussa “crisi” di partecipazione politica nel nostro paese? Per evitare che i referendum diventino delle semplici strategie di partito a discapito del bilancio pubblico, quale potrebbe essere la soluzione?

Aumentare i giorni in cui votare? Con molta probabilità, il risultato non sarebbe molto diverso e dal punto di vista logistico ed economico inutilmente dispendioso delle risorse statali.

E se si invertisse la formulazione del quesito referendario, prevedendo che per mantenere lo status quo fosse necessario che vincesse il ‘sì’, mentre l’eventuale mancato raggiungimento del quorum o la vittoria del ‘no’ venissero interpretati come volontà di cambiamento? In questo scenario, decisamente controintuitivo, entrambe le fazioni andrebbero a votare, anche nel caso di un referendum a rischio quorum perché, in tal modo, chi vota ‘no’ avrebbe una motivazione diretta e urgente a recarsi alle urne, mentre i favorevoli allo status quo (‘sì’) si troverebbero a misurarsi soltanto con chi è effettivamente contrario, e non anche con l’indifferenza degli astenuti, che oggi finisce per penalizzarli.

O invece, come in Australia, se multassimo chi non va a votare? Ad oggi sarebbe un ottimo modo per rimpinguare le casse statali…
E se calcolassimo il quorum sulla base della partecipazione reale delle ultime elezioni? Mantenendo la logica del quorum ma riducendo drasticamente la soglia, quantomeno in maniera relativa alla partecipazione reale delle elezioni più recenti, quindi della più recente fetta di ‘interessati elettori’.

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