Dominati dall’apparire


L’essere che scompare

Essere al centro dell’attenzione è diventato un obiettivo più che una conseguenza. La cultura dell’immagine sembra dominare ogni gesto. Costruiamo identità come si costruiscono scenografie: curate, luminose, pronte per lo sguardo altrui. E nella corsa all’apparire rischiamo di smarrire la dimensione più complessa, e più fragile, dell’essere.

È una tendenza generazionale, certo, ma anche una dinamica culturale. La visibilità diventa la nuova metrica identitaria, l’estetica diventa linguaggio e spesso la narrazione supera la sostanza. Ma cosa accade quando un’immagine non poggia su un’identità solida? Cosa resta quando ciò che mostriamo pesa più di ciò che siamo?

La nostra generazione ha imparato, spesso senza volerlo, a vivere in una dimensione performativa: ogni gesto può diventare contenuto e ogni esperienza una narrazione da ottimizzare. Le piattaforme non ci chiedono profondità, ma visibilità; non premiano ciò che siamo, ma solo ciò che mostriamo con sufficiente brillantezza.

E forse questa tendenza non nasce solo dagli strumenti che utilizziamo: è il contesto culturale che ci spinge a performare, a esistere solo quando osservati. Cresciamo con l’idea che la rilevanza passi dalla visibilità, che il valore si misuri in metriche, che ciò che non si mostra smetta quasi di esistere. Così investiamo energie nell’architettura della nostra immagine più che nella costruzione della nostra identità, convinti che la luce dei riflettori possa sostituire la solidità delle fondamenta. 

In questo processo, rischiamo di perdere qualcosa di più prezioso dell’attenzione stessa: la capacità di coltivare un “essere” stabile, lento, imperfetto. La corsa all’apparire, e alla sua monetizzazione, ci spinge spesso a costruire il brand personale prima ancora della personalità, la strategia prima della visione, la superficie prima della sostanza. È un paradosso moderno: più siamo visibili, più rischiamo di diventare opachi a noi stessi. Ed è qui che si apre lo spazio per chiedersi cosa significhi, oggi, apparire senza smarrire l’essere. 

In un panorama dominato da immagini veloci e narrazioni effimere, Chopard incarna l’antitesi del rumore contemporaneo. La Maison da anni segue un percorso che non sacrifica la visione e i valori alla visibilità. La scelta dell’oro etico è raggiunto al 100% nel luglio 2018, con un processo iniziato nel 2013, non è un gesto cosmetico: è la prova che l’estetica diventa autorevole solo quando poggia su decisioni valoriali coerenti. È la dichiarazione che il lusso non è solo ciò che brilla, ma ciò che resta e ciò che rappresenta.

La famiglia Scheufele, che guida Chopard, coltiva da decenni una filosofia dell’artigianato come atto culturale: fare con cura, fare con coscienza, fare per durare. È da questo “essere” solido e riconoscibile che nasce l’immagine della Maison, non il contrario. Il legame con il Festival di Cannes ne è la dimostrazione più elegante. Caroline Scheufele, Co-Presidente e Direttrice Artistica, arriva al cinema non per calcolo, ma per amore: la sua passione per la Settima Arte precede la partnership, e proprio per questo la rende autentica. Chopard non usa Cannes: lo interpreta. Il glamour che vediamo sui red carpet – le attrici, le luci, i gioielli – è solo la superficie di una relazione costruita su visione, affinità e cultura. Quando l’essere è forte, l’apparire non è mai artificiale: è la sua naturale conseguenza.

Osservare Chopard da vicino significa cogliere una verità che la nostra generazione, abituata alle estetiche istantanee, ha urgente bisogno di recuperare: la visibilità è un risultato, non un’identità. Siamo cresciuti costruendo versioni di noi stessi pronte per la vetrina, ma non sempre fondate su una visione altrettanto stabile. L’immagine corre, l’identità arranca. E i social, strumenti indispensabili ma ambigui, spesso amplificano questa fragilità più di quanto la correggano.

Eppure, i trend culturali ed economici ci mostrano un’evoluzione significativa: tra i giovani, la scelta ricade sempre più su brand con valori chiari, responsabilità sociale, autenticità misurabile. Il mercato premia la sostanza, non la performance estetica. È un cambio di paradigma che riguarda tutti – persone, aziende, creativi, aspiranti leader – e che ribadisce quanto conti ciò che si è prima di ciò che si mostra.

In questo scenario, Chopard rappresenta un modello controcorrente e, proprio per questo, contemporaneo. La Maison ribalta l’ordine delle priorità: prima i valori, poi la visibilità; prima l’identità, poi l’immagine; prima la cultura, poi il glamour. L’autenticità non è un ideale romantico, né un semplice posizionamento: è un’infrastruttura strategica. È ciò che dà peso alla narrazione, durata alla reputazione e credibilità all’apparire.

Per noi giovani, questa non deve essere una mera riflessione teorica, ma una direzione. Una bussola. Perché il vero rischio oggi non è apparire troppo, ma apparire prima di essere. 

E il vero potere, oggi più che mai, è costruire una visione che non abbia bisogno di inseguire la luce perché la genera.

E forse è questa, alla fine, la lezione più preziosa che Cannes e Chopard ci consegnano: l’apparire è fragile, ma l’essere no. Ed è l’essere, quando è solido e coerente, che alla fine lascia il segno. E può fare la storia.

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