In questa intervista, Marco Piccitto, Managing Partner per il Mediterraneo di McKinsey & Company e Chair del McKinsey Global Institute, analizza l’impatto della Generative AI sui modelli di business, evidenziando come il divario storico di produttività tecnologica tra Europa e Stati Uniti rischi di ampliarsi ulteriormente, aumentando la distanza tra i front-runners, che investono sistematicamente nelle tecnologie emergenti, e i cosiddetti laggards.
Spostando l’attenzione sul piano macroeconomico, il Dott. Piccitto sottolinea come l’impatto atteso dell’AI sull’occupazione sia neutro, pur richiedendo un significativo potenziamento delle competenze digitali per gestire lo “skill shift” generato dalle nuove tecnologie.
Infine, mette in luce quanto sia importante per le imprese l’adozione di solidi modelli di gestione del rischio, essenziali per aumentare l’adattabilità organizzativa e anticipare scenari geopolitici e macroeconomici sempre più imprevedibili.
In un mondo in cui le crisi sistemiche non derivano più dai soli squilibri economici, ma anche da fattori esogeni e interdipendenze globali, la resilienza diventa un elemento strategico imprescindibile.
1) Nel 2018 lei definiva l’AI come un fenomeno a “lenta combustione”. Con l’esplosione della generative AI nell’ultimo anno, possiamo parlare oggi di “combustione rapida”? Quali differenze strategiche sta riscontrando nel passaggio da adozione graduale a adozione rapida, soprattutto per aziende industriali e finanziarie?
Per fenomeno a “lenta combustione”, mi riferivo all’impatto dell’intelligenza artificiale, che non sarebbe stato immediato, ma cumulativo: chi avesse investito per primo avrebbe costruito un vantaggio duraturo nel tempo. Oggi questo effetto è sotto gli occhi di tutti.
La Generative AI ha impresso un’accelerazione e possiamo affermare di essere entrati in una fase di “combustione rapida”. La finestra tra il vantaggio competitivo e la necessità competitiva si è ridotta drasticamente: ciò che fino a poco tempo fa era un’opportunità è diventato un imperativo. Le organizzazioni in tutti i settori si trovano di fronte a un cambio di ritmo che richiede velocità decisionale, capacità di sperimentazione continua e modelli operativi più agili.
Nel mondo industriale, la GenAI può rivoluzionare ad esempio la catena di fornitura, la produzione e la manutenzione; nel settore finanziario, incide sui sistemi di gestione del rischio, sul servizio al cliente e sulla compliance.
Tuttavia, la vera sfida non è solo tecnologica, ma organizzativa e culturale. In questa fase è fondamentale sperimentare in modo rapido e a basso costo, concentrandosi sulle aree a maggiore impatto per il business, per poi portare a scala quelle più efficaci integrandole nel modello operativo. Al contrario, un approccio “wait and see” rischia di lasciare indietro chi lo adotta.
2) Nello stesso anno, il McKinsey Global Institute ipotizzava che i front-runners dell’AI potessero raddoppiare il cash flow entro il 2030, mentre i laggards rischiavano perdite. Con i recenti sviluppi, questa forbice si è ampliata o si è ridotta? Quali segnali osserva nelle imprese europee?
La forbice si è ampliata in modo evidente. Negli ultimi vent’anni il divario di produttività tra Europa e Stati Uniti si è quasi raddoppiato e circa il 70 per cento di questo scarto è legato alla minore capacità europea di generare crescita nei settori tecnologici. Gli Stati Uniti hanno investito in modo più rapido e deciso, sia come produttori di tecnologia sia come utilizzatori: ciò ha creato vantaggi di scala e di produttività che oggi si autoalimentano.
In Europa, l’adozione è stata più graduale e questo ritardo si fa sentire. Oggi, la generative AI rischia di ampliare ulteriormente la distanza: chi investe in modo sistematico in tecnologia, capitale umano e infrastrutture digitali costruisce un vantaggio cumulativo difficile da colmare.
Per invertire la tendenza serve una strategia comune. Il McKinsey Global Institute stima che l’Europa debba mobilitare fino a 800 miliardi di euro l’anno in investimenti pubblici e privati entro il 2030, raddoppiando gli attuali flussi di private equity e venture capital da 150 a 250 miliardi.
La competitività futura si giocherà nelle nuove “arene tecnologiche” – dall’AI ai semiconduttori, dai materiali avanzati all’energia di nuova generazione, solo per citarne alcune – e sarà determinata dalla rapidità con cui le imprese sapranno passare dalla sperimentazione alla scala industriale.
3) Ha spesso sottolineato che l’effetto netto dell’AI sull’occupazione sarà pressoché neutro, ma comporterà un massiccio cambiamento delle competenze richieste sul lavoro. Secondo lei, le imprese italiane stanno investendo abbastanza in lifelong learning e riqualificazione? Quali modelli di upskilling avete visto funzionare meglio?
Assisteremo a una trasformazione profonda del mercato del lavoro: alcune professioni saranno meno richieste, mentre altre emergeranno. Le nostre analisi mostrano che, nel complesso, l’impatto netto sull’occupazione globale entro il 2030 sarà pressoché neutro. La vera sfida sarà gestire lo “skill shift”: crescerà la domanda di ruoli non ripetitivi e con elevate competenze digitali, mentre i lavori più routinari e a basso contenuto digitale tenderanno a ridursi.
In questo contesto, la formazione riveste un ruolo cruciale e le aziende saranno attori fondamentali nel guidare questa fase di cambiamento. Servono modelli di apprendimento continuo, personalizzati e strettamente connessi agli obiettivi di business: piani di strategic workforce planning che anticipino l’evoluzione dei ruoli, percorsi che uniscano teoria e pratica, e formazione on the job per integrare le nuove competenze nei processi operativi.
Sul fronte della formazione, la percezione è molto bassa: secondo l’ultima edizione del nostro HR Monitor, in Italia i lavoratori percepiscono di ricevere la metà dei giorni di training effettivamente erogati dalle proprie aziende. È un segnale che indica la necessità di un salto di qualità, sia nella quantità sia nella coerenza dei percorsi di aggiornamento delle competenze.
Investire nel capitale umano non è più una misura di welfare, ma una leva strategica di competitività: è ciò che consente alle imprese di realizzare in modo efficace la trasformazione digitale, trattenere i talenti e generare un impatto sociale positivo.
4) Uno studio del MGI di Gennaio 2025 rileva che il 20% delle persone in nazioni higherincome, Italia inclusa, restano sotto la Empowerment Line. Se la crescita del PIL non è più la leva sufficiente per includerli, qual è oggi il vero ostacolo che impedisce la loro piena inclusione economica?
Il dato secondo cui circa il 20% della popolazione nei Paesi ad alto reddito – Italia compresa – vive al di sotto della cosiddetta Empowerment Line evidenzia come la crescita del PIL, da sola, non sia più sufficiente a garantire benessere diffuso.
A livello globale, secondo il McKinsey Global Institute, quasi il 60% delle persone – pari a 4,7 miliardi di individui – non dispone di un reddito sufficiente per sostenere un tenore di vita dignitoso e iniziare a risparmiare.
Il principale ostacolo all’inclusione economica risiede nell’aumento del costo della vita: i beni e servizi essenziali incidono in modo crescente sui redditi medi. Se tutti i Paesi riuscissero ad allineare questi costi ai livelli delle economie più accessibili e inclusive, circa 230 milioni di persone nel mondo supererebbero questa soglia.
In questo contesto, le imprese possono giocare un ruolo determinante, orientando i propri modelli di crescita, welfare e formazione verso obiettivi concreti e misurabili di empowerment. Costruire società più inclusive significa rafforzare la produttività collettiva e rendere la crescita più sostenibile nel lungo periodo, a beneficio di imprese e comunità.
5) La vostra practice Risk & Resilience ha un osservatorio unico su oltre 1.000 crisi aziendali. Qual è l’errore strategico più ricorrente che osserva nei CEO quando affrontano shock climatici o geopolitici? E qual è l’azione chiave che permette di trasformare quel rischio da passività a vantaggio competitivo durevole?
Negli ultimi anni abbiamo visto come eventi globali critici abbiano messo in luce la fragilità di un sistema economico interdipendente, in cui le crisi si propagano rapidamente lungo l’intera catena del valore. In questo contesto, l’errore più frequente è considerare la crisi come un evento circoscritto, da gestire nell’urgenza, invece che come un segnale strutturale che richiede un ripensamento strategico.
Le aziende non possono controllare il contesto geopolitico o macroeconomico, ma possono prepararsi: anticipare gli scenari, monitorare la propria esposizione ai rischi e costruire una maggiore capacità di adattamento. Servono, come spesso ricordiamo, due lenti: il microscopio, per agire con efficacia nel breve termine, e il telescopio, per orientare le scelte di medio-lungo periodo, dalla struttura della supply chain alla riallocazione del capitale.
Le imprese che adottano questa duplice prospettiva dimostrano di saper trasformare l’incertezza in un vantaggio competitivo duraturo. Non si tratta di evitare il rischio, ma di adottare modelli di gestione del rischio più solidi, trasparenti e sostenibili, integrandoli sistematicamente nella strategia aziendale. È questa la base della vera resilienza: la capacità di mantenere la rotta in un mondo che cambia rapidamente e in modo continuo.
Conclusione
Dalla conversazione con il Dott. Piccitto è emersa la centralità della Generative AI e la sua transizione da mera opportunità a vero e proprio imperativo per i moderni modelli organizzativi. Parallelamente, è evidente che l’Europa debba colmare il divario tecnologico con gli Stati Uniti e che la formazione all’interno delle imprese sarà cruciale per gestire lo ‘skill shift’, trasformando il capitale umano nel mezzo con cui perseguire una trasformazione digitale sostenibile.
In tal senso, considerare l’impresa come un motore di impatto sociale positivo significa guardare oltre la performance economica e includere il benessere di chi vive sotto la Empowerment Line. Nei Paesi ad alto reddito, l’aumento del costo della vita rischia di trasformarsi in una barriera strutturale: solo società realmente inclusive, capaci di sostenere una crescita di lungo periodo più equa e sostenibile, possono evitare che milioni di persone restino ai margini del sistema economico.
In conclusione, il recente periodo pandemico ha dimostrato che le crisi sistemiche possono avere radici differenti dai convenzionali squilibri economici, sottolineando l’importanza di imprese con modelli di risk management capaci di anticipare scenari geopolitici e macroeconomici altamente imprevedibili. In questo contesto emerge il reale significato di resilienza: la capacità di trasformare il rischio in valore e di non soccombere alla crescente complessità del mondo contemporaneo.