Dalla ART alla PrEP, fino ai farmaci long-acting: come la scienza ha cambiato la storia del virus.
Se, nella seconda metà degli anni ’80, la stella del cinema Rock Hudson ed il front leader dei Queen Freddy Mercury avessero saputo che, appena qualche decennio dopo la diagnosi, all’epoca funesta, da loro ricevuta, la malattia sconosciuta ed infamante che li aveva colpiti non sarebbe più stata considerata una ineluttabile condanna a morte, ma una patologia con cui poter convivere, probabilmente non ci avrebbero creduto.
Per comprendere come questa trasformazione sia stata possibile, è necessario conoscere più da vicino il virus responsabile: l’HIV.
Il virus dell’HIV è un virus piccolo, ma complesso (contiene 9 geni che codificano per molte proteine strutturali, regolatorie ed accessorie, le quali consentono al virus di replicarsi e sfuggire al sistema immunitario), che per infettare deve trasformare il suo RNA in DNA tramite un enzima chiamato trascrittasi inversa. Il DNA virale così ottenuto si integra poi nel DNA della cellula (di solito un linfocita CD4) grazie ad un altro enzima, l’integrasi. Una volta integrato, non può più essere rimosso, rendendo l’infezione permanente. Durante la trasformazione in DNA, la trascrittasi inversa commette molti errori, creando varianti del virus difficili da combattere, che rappresentano una continua sfida terapeutica. Dopo l’infezione, il virus attraversa tre fasi: una fase acuta (che si manifesta con sintomi aspecifici – quali febbre, ingrossamento dei linfonodi, etc., che talvolta passano inosservati – o addirittura in assenza di sintomi), con rapida diffusione nell’organismo (specie nell’intestino, che funge da reservoir, cioè “serbatoio”), una fase latente in cui l’infezione resta sotto controllo, e infine la fase di AIDS conclamato, con sintomi gravi causati dalla ineluttabile perdita dei linfociti CD4 e dal conseguente instaurarsi di infezioni opportunistiche (quali polmoniti batteriche, candidiasi, sarcoma di Kaposi, etc.) che indicano la definitiva compromissione del sistema immunitario.
Nonostante la complessità del virus e le sfide poste dalla sua natura persistente, i progressi non solo microbiologici, ma soprattutto diagnostico-terapeutici hanno trasformato radicalmente il panorama dell’infezione da HIV. Attualmente, infatti, secondo le stime, nel mondo oltre 40 milioni di persone (prevalentemente nel continente africano) convivono con l’HIV e, per coloro che hanno accesso alle cure (circa 30 milioni), la qualità della vita è ottima ed in continuo miglioramento. Inoltre, da più di dieci anni si registra un calo dell’incidenza, un chiaro segnale dei progressi raggiunti nella prevenzione e nel trattamento, che stanno lentamente ridisegnando il corso dell’epidemia.
Per sottolineare l’importanza delle più recenti innovazioni nel campo dell’HIV, è utile fare un passo indietro e ripercorrere brevemente le tappe principali della sua scoperta e delle conquiste terapeutiche che ne sono derivate.
HIV è un virus relativamente giovane, dato che la sua storia ha inizio circa 45 anni fa. Era il 1981 quando, negli Stati Uniti, si osservò un insolito aumento di casi di polmonite fungina, un’infezione opportunistica che rappresentò il primo segnale dell’emergere di una nuova malattia sconosciuta. Nel giro di soli due anni, due gruppi di ricerca indipendenti, guidati da Luc Montagnier e Robert Gallo, identificarono il retrovirus responsabile dell’AIDS – una sindrome tristemente nota all’epoca come la “peste dei gay” a causa dello stigma sociale che la circondava (il virus, infatti, si trasmette tramite rapporti sessuali e la sua incidenza era particolarmente elevata nella popolazione omosessuale).
Pochi anni dopo si arrivò anche allo sviluppo di un primo farmaco attivo, la zidovudina (oggi non più utilizzato, anche perché tossico). Si compresero presto anche i meccanismi di trasmissione dell’infezione (che avviene non solo per via sessuale, ma anche ematica o verticale, cioè da madre a figlio durante gravidanza ed allattamento). Già a metà degli anni ’90 fu sviluppata la ART, la Terapia Anti-Retrovirale (nota anche come cART, dove la ‘c’ sta per ‘combined’, o HAART, ‘Highly Active ART’), un approccio rivoluzionario che trasformò radicalmente la gestione dell’HIV. Questa terapia, ancora oggi utilizzata, prevede la combinazione di almeno tre farmaci antiretrovirali, impedendo al virus di replicarsi efficacemente. Grazie alla ART si è arrivati alla storica evidenza ‘U=U’ (Undetectable = Untransmittable): se la carica virale è soppressa al punto da risultare non rilevabile, l’infezione non è più trasmissibile, anche senza l’uso del preservativo – un risultato confermato anche da un recente studio su mille coppie siero-discordanti (cioè in cui uno solo dei partner era HIV positivo). Dalla metà degli anni ’90, inoltre, su raccomandazione dell’OMS, si iniziò a suggerire la diffusione della PEP (Profilassi Post-Esposizione) per gli operatori sanitari che accidentalmente si trovavano esposti al virus. Negli ultimi quindici anni, poi, è stata introdotta e diffusa la PrEP, la profilassi pre-esposizione, raccomandata per gli adulti ad alto rischio di contrarre l’infezione.
Ma la ricerca non si ferma.
Il maggior limite dalla ART (oltre a quello di essere una terapia da assumere a vita e che presenta alcuni effetti collaterali) è infatti quello di essere in grado di mantenere sotto controllo l’infezione da HIV ma, in caso di sospensione della terapia, la viremia aumenta di nuovo, con effetto rebound, nel giro di poche settimane. Si tratta, in buona sostanza, di una “terapia cuscinetto” e non di una cura
definitiva, a causa della presenza di un perdurante reservoir virale, costituito principalmente dai linfociti T CD4 in cui l’HIV instaura un’infezione latente. È dunque sufficiente una scarsa compliance del paziente (cioè poca aderenza alla terapia) per consentire al virus di riprendere vigore.
Perciò, dalla somministrazione quotidiana di decine di compresse si sta cercando di passare ai cd. farmaci long-acting.
In questo campo un importante passo avanti è stato fatto proprio di recente: ad ottobre 2024 è infatti stato pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine (NEJM) il risultato di un trial che evidenzia l’efficacia di un nuovo farmaco, il Lenacapavir, come profilassi pre-esposizione, da somministrare per via sottocutanea ogni sei mesi.
Lo studio del NEJM (fase 3, randomizzato, in doppio cieco) è stato condotto, da un team internazionale di scienziati della Harvard Medical School e dell’Università del Massachusetts, su oltre 5300 giovani donne sessualmente attive ed HIV-negative in Sudafrica ed Uganda (due dei Paesi più colpiti dall’incidenza del virus). Il sorprendente e promettente risultato è stato che, tra le oltre 2100 partecipanti cui era stato somministrato il Lenacapavir non si è verificata alcuna infezione, mentre tra le restanti 3100 cui erano stati somministrati l’emtricitabina-tenofovir alafenamide (F/TAF) e l’emtricitabina-tenofovir disoproxil fumarato (F/TDF) se ne sono verificate 55.
L’introduzione del Lenacapavir come profilassi pre-esposizione, quindi, potrebbe avere un impatto significativo sulla prevenzione dell’HIV, soprattutto in popolazioni ad alto rischio ed in contesti dove l’aderenza alla terapia quotidiana è difficile. La somministrazione semestrale riduce il carico terapeutico e può migliorare l’accesso alla prevenzione in aree con risorse limitate. Tuttavia è fondamentale garantire che il Lenacapavir sia accessibile a tutti coloro che ne hanno bisogno, affrontando le sfide legate ai costi ed alla distribuzione, specialmente nei Paesi a medio reddito che spesso non beneficiano di programmi di accesso agevolato.
Allo stato, può dirsi che la somministrazione sottocutanea di Lenacapavir sia la soluzione più vicina ad un vero e proprio vaccino terapeutico contro l’HIV, per il quale gli sforzi sinora profusi dalla comunità scientifica internazionale non hanno ancora dato i risultati sperati, ma hanno portato certamente ad un avvicinamento alla soluzione.
Il cammino verso una cura definitiva per l’HIV – da condanna a morte a condizione gestibile, fino alla speranza concreta di una cura – è ancora lungo, ma ora che la ricerca punta a sradicare il virus dai suoi rifugi più profondi, ciò che un tempo sembrava utopia diventa ogni giorno più realistico. Se Hudson e Mercury oggi potessero vedere dove siamo arrivati, forse sorriderebbero.