Avanzata, prestigiosa e inconfondibile. Così si descrive la cultura e l’industria italiana, frutto di secoli di storia, di menti brillanti e visionarie, e di un profondo senso di comunità che continua a guidarne l’eccellenza. Il Made in Italy della moda, della cucina, del cinema e del teatro.
Ma esiste un’altra declinazione, più silenziosa e discreta, ma altrettanto preziosa, che ogni anno permette a milioni di persone di essere curate. È l’eccellenza del sistema trasfusionale italiano.
L’Italia, infatti, è uno dei pochi Stati al mondo – assieme a Francia e Finlandia – dove donare il sangue è un atto puramente volontario, anonimo e non remunerato, secondo quanto stabilito dalla Legge 219 del 21 ottobre 2005 (“Nuova disciplina delle attività trasfusionali”). Una legge che già di per sé sfoggia eccellenza ed innovazione, delineandosi come una delle architetture normative più avanzate d’Europa: prima a definire il sangue come bene biologico, etico e comunitario, a riconoscere che la sicurezza del sistema dipende dalla qualità del donatore (secondariamente dalle tecnologie di processo), ad affidare la continuità del sistema non al mercato, ma alla responsabilità collettiva.
Vent’anni dopo, il Centro Nazionale Sangue (CNS) e l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) coordinano uno dei sistemi trasfusionali meglio strutturati d’Europa. I dati più recenti stimano circa 1.650.000 donatori attivi, di cui 1.390.000 periodici, e una raccolta annua superiore a 3,1 milioni di unità di sangue, con un tasso nazionale di circa 53 unità per 1.000 abitanti: valori tra i più elevati nello scenario europeo (CNS – Rapporto attività Sistema Trasfusionale 2022–2023).
Numeri straordinari, che consentono al Paese di garantire dal 2010 (Grecuccio C et al, Blood transfusion practice: state of the art on promoting blood donation in Italy – Biomedicine & Prevention issues – 2017) l’autosufficienza per emazie e piastrine. In aggiunta a ciò, si affianca la costante crescita della raccolta di plasma, con un aumento del 4% rispetto al 2022: volumi che sostengono la produzione dei principali MPD utilizzati nel trattamento di patologie ad alta complessità – dall’emofilia alle immunodeficienze, dai trapianti alle ustioni gravi – e che confermano il ruolo strategico della filiera italiana per la salute pubblica (Patrizia Maciocchi, Crescono le donazioni di sangue e plasma, i giovani seguono l’esempio di familiari e amici, in Sole 24ore, 2024).
Tali risultati sono resi possibili da una trama industriale tra le più avanzate del continente, dove il Distretto Biomedicale di Mirandola (Emilia-Romagna) si pone come più il grande polo europeo per i dispositivi monouso destinati alla terapia extracorporea ed alla trasfusione: apparecchiature per aferesi, separatori cellulari, centrifughe, sistemi di filtrazione, prodotti da aziende come Fresenius Kabi Italia, B. Braun Avitum, Haemonetics Italia e Medica SpA. Nondimeno, nel 2023, il Rapporto Confindustria Dispositivi Medici annoverava l’Italia tra i primi tre produttori di dispositivi medici, con un export superiore al 55%.
Ma la forza del modello non risiede solo nei numeri e nella tecnologia, quanto nel valore solidaristico che lo sostiene. I meriti del nostro Paese sono la forza delle scuole e delle università, dove si formano le nuove generazioni di donatori: una buona percentuale dei donatori tra 18 e 25 anni proviene infatti da iniziative universitarie coordinate da associazioni studentesche e centri di raccolta.
Realtà come AVIS, o altre associazioni nazionali e/o locali, assumono così un ruolo di primo piano: coordinano, sostengono e consolidano il flusso dei donatori, contribuendo a costruire la cultura del dono, ormai patrimonio collettivo.
Ne sono ben consapevoli le studentesse e gli studenti del Campus di Roma dell’Università Cattolica del Sacro Cuore: dal 1980, il Policlinico Gemelli opera in collaborazione con il Centro Donatori “Francesco Olgiati”, che garantisce ai molti e complessi reparti della struttura più del 30% del fabbisogno trasfusionale. Dati importanti, se confrontati con i rapporti recenti sul sistema statunitense, i quali indicano che la maggior parte delle strutture ospedaliere non supera una soglia del 10–20% di raccolta interna, dovendo affidare il restante fabbisogno ai network commerciali del sangue. (HHS, Adequacy of the National Blood Supply, Report to Congress, 2020).
In questo scenario, il Policlinico Gemelli si colloca in una posizione intermedia ma nettamente favorevole: non ancora autosufficiente, ma considerabilmente più autonomo rispetto alla media delle grandi strutture internazionali. Un esempio di modello integrato — tipico del sistema trasfusionale italiano — in cui il policlinico universitario, il centro donatori e il servizio trasfusionale cooperano come un’unica rete funzionale.
Cosa ci rende un esempio? Non l’organizzazione tecnica, comunque di nota, ma la dimensione etica e culturale che permea il sistema, che rende la donazione non una transazione commerciale, ma un gesto compassionevole e volontario, riconosciuto dalla legislazione e radicato nella società come responsabilità civica.
In un mondo dove l’Italia esporta moda, design, eccellenze enogastronomiche, tecnologie – tutti beni materiali – il campo trasfusionale offre qualcosa di diverso: una pratica sociale. Un patrimonio immateriale ma concreto negli effetti, che non si limita a produrre qualità, ma la coltiva e la diffonde secondo il valore del dare, come un dono che non si imballa e non si spedisce, ma si tramanda.
È il Made in Italy che non finisce sulle passerelle, ma nelle terapie intensive, nelle ematologie pediatriche, nelle sale operatorie, e nella speranza dei malati e delle loro famiglie.