Italia Digitale: tra ambizioni, paradossi e sfide culturali


Da dizionario, la “digitalizzazione” è “la conversione di grandezze analogiche in informazioni digitali, effettuata mediante un dispositivo, detto digitalizzatore o convertitore analogico-digitale”. Negli ultimi anni, però, il significato del termine “digitalizzazione”  si è ampliato, includendo il concetto di trasformazione sociale ed economica di un Paese. Ma cosa significa davvero “digitalizzare un Paese”?

Prima della pandemia di Covid-19, l’Italia era a tutti gli effetti un Paese analogico. La sua arretratezza digitale era pressoché estesa a tutti gli ambiti del quotidiano: burocrazia cartacea, ritardi cronici della Pubblica Amministrazione, file interminabili agli sportelli, connessioni lente, scarsa alfabetizzazione tecnologica e un marcato digital divide sociale e geografico. Inoltre, il confronto con la media europea era tutt’altro che incoraggiante: nel 2019, infatti, il rapporto DESI (Digital Economy and Society Index) dell’Unione Europea collocava l’Italia al 24° posto su un totale di 28 Stati membri. Lo stesso documento registrava quello che sembra a tutti gli effetti un contesto paradossale: un Paese dotato di una delle reti in fibra ottica più estese d’Europa, ma con uno dei più bassi tassi di utilizzo; un’altissima percentuale di cittadini iperconnessi, ma con scarsissime competenze digitali, spesso limitate all’uso dei social network e alla messaggistica. 

Con la diffusione del Covid-19 a macchia d’olio, è diventato ancora più evidente il ritardo strutturale dell’Italia in termini di innovazione e infrastrutture tecnologiche. Il Paese ha dovuto affrontare una corsa contro il tempo, una spinta forzata alla digitalizzazione con gli strumenti che aveva a disposizione – decisamente insufficienti rispetto alla necessità che si presentava davanti agli occhi di tutti. A quel punto, con l’introduzione della didattica a distanza e il potenziamento dello smart working e delle piattaforme digitali della Pubblica Amministrazione durante il lockdown, era chiaro a tutti quanto il digitale non fosse solo utile, ma necessario. A fronte della carenza strutturale del nostro Paese, c’era bisogno di trovare una soluzione in tempi brevi.

Ed ecco che, nel 2021, l’Italia ha tra le mani una delle più grandi opportunità degli ultimi decenni. Per poter risollevare le sorti di un’Europa in difficoltà, l’UE istituisce un pacchetto di finanziamenti da suddividere tra tutti i Paesi membri: il programma NextGeneration EU (NGEU). È in questo contesto che si inserisce il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), un progetto di riforme da attuare utilizzando i finanziamenti europei che, per l’Italia, ammontano a circa 194,5 miliardi di euro, più ulteriori 30,6 miliardi dal Piano Nazionale Complementare. La Missione 1 del PNRR, dedicata a “Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura”, riceve 40,29 miliardi di euro tra fondi UE e complementari, così distribuiti: 9,72 miliardi nella Pubblica Amministrazione, 23,89 miliardi nel sistema produttivo, 6,68 miliardi in turismo e cultura 4.0. Gli obiettivi della Missione 1 sono ambiziosi: trasformare i processi produttivi delle imprese, consolidare le infrastrutture digitali della Pubblica Amministrazione e renderle accessibili, combattere la criminalità informatica, portare la banda ultra-larga anche nelle aree più isolate del Paese, facilitare lo scambio di dati tra le PA grazie al sistema cloud, ottimizzare il sistema sanitario e l’istruzione, incentivare la cittadinanza digitale e alzare i tassi di alfabetizzazione digitale. Quest’ultimo punto, poi, è stato ulteriormente supportato attraverso l’istituzione del Fondo Repubblica Digitale, un fondo complementare istituito nel 2021 dal Decreto-legge 152/2021 per favorire la transizione digitale e promuovere l’alfabetizzazione digitale su scala nazionale, grazie ai Punti Digitale Facile distribuiti sul territorio e l’implementazione del Servizio Civile Digitale, che mira a coinvolgere i giovani in progetti di formazione e facilitazione. 

Il grande supporto finanziario alla base di questo progetto lasciava ben sperare. È dunque naturale chiedersi: a distanza di quattro anni, a che punto siamo?

Secondo i dati aggiornati del portale Open PNRR della fondazione Openpolis, al primo trimestre del 2025 solo il 26,76% delle risorse destinate alla digitalizzazione è stato effettivamente utilizzato. Il settore ad aver usufruito del maggior numero di finanziamenti è quello delle imprese e dei privati digitali (4,9 miliardi), seguito dall’amministrazione digitale (3,6 miliardi), la cittadinanza digitale (3,4 miliardi) e, in coda, la sicurezza digitale (623 milioni). L’impatto concreto delle risorse utilizzate si nota in alcuni segnali positivi: crescono le startup digitali, migliora l’accesso ai servizi pubblici online, il lavoro delle amministrazioni è in parte ottimizzato, la scuola integra nuovi ambienti digitali innovativi grazie al Piano Scuola 4.0, l’accesso alla sanità pubblica diventa sempre più a misura di cittadino, anche grazie all’avvento della telemedicina e al potenziamento del Fascicolo Sanitario Elettronico.

Tuttavia, le disuguaglianze restano forti, tra Nord e Sud, tra centri urbani e aree interne, tra chi possiede competenze digitali e chi no. I paradossi italiani persistono: lo SPID e la Carta di Identità Elettronica sono stati attivati da milioni di cittadini, ma non vengono utilizzati; giovanissimi e adulti passano sempre più ore online, ma faticano a distinguere una notizia vera da una fake news. Di fatto, solo il 46% della popolazione ha competenze digitali di base, contro una media UE del 54%. 

Dal punto di vista infrastrutturale, è evidente che si possano ancora apportare delle migliorie e l’utilizzo parziale dei finanziamenti del PNRR dimostra che c’è ancora margine di manovra. Ciò di cui ci stiamo rendendo sempre di più conto, però, è che si tratta di un problema culturale, educativo e sociale. Sarebbe estremamente banalizzante dire che il digital divide sia solo una questione di scarsa rete o mancanza di strumenti tecnologici. La realtà è che il digital divide è fatto, prima di tutto, di persone escluse: per età, per mancanza di competenze, per isolamento geografico, per condizioni di fragilità economica.

La digitalizzazione non è una semplice questione tecnica, è una sfida umana e sociale. Ci dimostra che è essenziale ripensare e trasformare il modo in cui lavoriamo, apprendiamo, viviamo e partecipiamo alla vita pubblica. Il digitale dev’essere reso ancor di più a misura di essere umano, tenendo in considerazione tutte le sue fragilità e le sue difficoltà. Non basta costruire nuove piattaforme, bisogna formare persone. Non basta digitalizzare la burocrazia, bisogna semplificarla. Non basta spingere sull’innovazione, bisogna renderla inclusiva, accessibile, etica.

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