La Gen Z riscrive la figura della cooperazione: una nuova visione di impatto sociale


Il concetto di missione evoca da sempre un immaginario di partenze eroiche ed altruismo unidirezionale: prodi occidentali che attraversano frontiere per portare aiuto, conoscenza, progresso. Oggi, tuttavia, la Gen Z sta ridisegnando i contorni di questa visione, trasformandola da gesto di imposizione a esperienza di reciprocità. 

Tra le voci protagoniste di questa trasformazione ci sono Federica e Irene, due giovani studentesse di Medicina e Chirurgia del Campus Bio-Medico di Roma, che hanno trascorso alcune settimane nell’ospedale dell’Abbazia di Mvimwa, in una delle regioni più remote della Tanzania. Accompagnate da colleghi e da un gruppo di medici specializzandi, hanno vissuto un’esperienza capace di infrangere il confine tra chi aiuta e chi riceve aiuto, scoprendo la vera essenza della cooperazione: imparare prima di insegnare, sostenere prima di intervenire.  

Federica si è dedicata in modo particolare alla diagnosi e al trattamento delle patologie cardiovascolari, particolarmente diffuse in queste aree a causa di fattori quali lo stile di vita e le abitudini alimentari. Irene, invece, si è impegnata nella gestione della maternità e della salute femminile, svolgendo ecografie e visite ostetrico-ginecologiche e partecipando a momenti di educazione sanitaria per le giovani mamme. 

Oltre la retorica dell’aiuto: la missione come incontro di mondi 

In Tanzania, così come in altri luoghi frequentemente interessati da missioni umanitarie e sanitarie, i pochi mezzi a disposizione conferiscono all’azione di aiuto un significato più autentico: si instaura un dialogo, un laboratorio umano e culturale in cui lasciarsi plasmare da ci  che si incontra.  La sfida più complessa non è convincere la comunità locale ad accettare aiuto, bensì adattarsi ai suoi ritmi, perfezionando ci che già funziona per ottenere risultati quanto più concreti ed immediati: forzare l’adozione di metodi sconosciuti rischia di creare diffidenza, sprecando tempo e risorse.  

Adattarsi per comprendere: la lezione dell’impatto sociale 

L’impatto sociale non si misura col numero di progetti avviati, ma con la profondità delle relazioni costruite. A Mvimwa, ogni gesto — un ambulatorio improvvisato, una visita ai villaggi limitrofi, un sorriso a chi aspetta pazientemente in sala d’attesa — diventa un atto concreto di mutua assistenza, frutto di collaborazione e impegno condiviso. 

L’esperienza in sala operatoria ha offerto un confronto diretto con condizioni igienico-sanitarie complesse, ma ha rappresentato anche occasione di cooperazione con il team medico locale, con cui Federica, Irene e tutti i volontari italiani si sono interfacciati costantemente.  

L’ascolto è diventato il mezzo per uno scambio silenzioso, in cui la lingua swahili da barriera si è mutata in ponte e i paradigmi più ostinati sono stati sovvertiti: si è rivelata così una concezione dell’esistenza in cui la nascita, rito quotidiano, e la morte, costante compagna di viaggio, vengono vissute con una dignità e una consapevolezza che hanno messo in discussione la concezione della vita stessa. 

Riscoprire la clinica: il ritorno all’essenza della cura 

Lavorare in un contesto dove la tecnologia è ridotta all’essenziale e le risorse diagnostiche sono scarse significa riscoprire la clinica nella sua forma più pura. L’osservazione, l’ascolto e il ragionamento clinico tornano ad essere strumenti centrali del medico, oltre ogni referto o immagine. Si impara a formulare ipotesi basandosi su segni e sintomi, si ricorre alla terapia empirica come strumento diagnostico: partire dal trattamento stesso per valutare la condizione e la risposta del paziente. E così anche la più immobilizzante incertezza del giovane medico cade e ciascuno è spinto a decisioni rapide ma ragionate, anche in condizioni che mettono alla prova la sicurezza e l’autonomia professionale. 

In questo scenario la medicina diventa, prima di tutto, esercizio di adattamento e di collaborazione. L’esperienza quotidiana insegna a comunicare in modo empatico e interculturale, a valorizzare il confronto con colleghi di diversa formazione e a riconoscere la forza del lavoro di squadra, anche quando i ruoli non sono rigidamente definiti. Si sviluppano capacità trasversali —flessibilità, gestione dell’imprevisto, ascolto attivo — che restano centrali anche una volta tornati in contesti più strutturati. 

Tornare in Italia dopo aver operato in queste condizioni significa portare con sé un nuovo modo di intendere la professione: più essenziale e consapevole, meno dipendente dalla tecnologia e più radicato nella relazione con il paziente. È una medicina che pone al centro la persona e la comunità, e che ricorda come il valore del curare non risieda solo negli strumenti, ma nella capacità di comprendere, decidere e agire con umanità. 

La missione, nella visione della Gen Z, non è più un atto di carità ma di reciprocità. È un incontro di saperi, di prospettive e di umanità, dove chi parte e chi accoglie si trasformano a vicenda. Cooperare non per portare qualcosa, ma per condividere ciò che si ha — conoscenza, tempo, energie — nella consapevolezza che il cambiamento nasce solo dallo scambio. È in questo equilibrio che la nuova generazione di medici trova il senso più autentico del proprio ruolo: non solo curare, ma comprendere, imparare, costruire insieme. 

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