L’amore per la precisione la passione per la velocità


Differenziarsi. È la parola che torna più spesso quando si parla di carriera, competenze e futuro. Ma non è solo una questione di visibilità: è la ricerca di un modo personale di stare nel mondo. In un contesto sempre più competitivo, emergere sembra l’unico modo per contare. Tutti vogliono lasciare un segno, distinguersi agli occhi dei recruiter, dei colleghi, perfino nelle relazioni personali. L’obiettivo non è soltanto farsi notare, ma trovare quella scintilla autentica che ci renda riconoscibili, come un ago nel pagliaio capace di riflettere una luce propria.

Eppure, nella corsa a farci riconoscere, dimentichiamo di riconoscere noi stessi. Sappiamo analizzare i piani di studio, valutare le carriere possibili, ma raramente ci fermiamo a capire dove rendiamo meglio, quale tipo di contesto ci fa crescere davvero, qual è il nostro modo di apprendere e di pensare. Il percorso universitario, più che una somma di esami, dovrebbe essere un percorso di scoperta di sé: capire i propri punti di forza, valorizzare ciò che ci rende unici, accettare ciò che non lo è.

Bisognerebbe concentrarsi su ciò in cui siamo naturalmente portati e portarlo all’eccellenza, invece di provare a colmare ogni debolezza. È molto più autentico puntare su ciò che ci riesce meglio, piuttosto che diventare mediocri in tutto. Ma questo richiede consapevolezza, che nasce solo quando ci si espone e si sperimenta.

Ho sempre avuto l’esigenza di esplorare, più che di scegliere. Non per mancanza di direzione, ma perché solo guardando da prospettive diverse si capisce davvero dove si vuole arrivare. Ogni esperienza, accademica, professionale o personale, è stata per me un modo per ampliare lo sguardo, non solo il curriculum.

JEME è diventata per me una palestra di scoperta. Mi ha permesso di osservare da vicino realtà lavorative, confrontarmi con aziende e persone diverse e, soprattutto, conoscere me stesso. Ho capito come reagisco sotto pressione, qual è la mia indole nel lavoro di squadra, che tipo di leadership voglio esercitare. È un contesto che costringe a uscire dai ruoli e a costruire un modo personale di affrontare le sfide: che si tratti di scrivere un articolo o di presentare a un board aziendale.

Scoprire sé stessi significa anche imparare a scegliere dove mettersi alla prova. Non basta un titolo o un ruolo: serve trovare un ambiente che rispecchi i propri valori, dove l’allineamento con la cultura aziendale e le persone che la compongono permetta di dare il meglio. Se non ci riconosciamo in chi ci circonda, difficilmente riusciremo a crescere.

Per questo, la prima esperienza lavorativa assume un peso enorme. È quella che definisce la nostra direzione e il nostro modo di intendere il lavoro. Chi viene dopo si baserà su quella storia per capire chi siamo. Più avanti nel percorso, un errore o una deviazione possono essere assorbiti; all’inizio, invece, tutto lascia un’impronta. È la base su cui costruiamo la nostra identità professionale.

Serve quindi costruire una visione di lungo periodo della carriera, non lasciarsi schiacciare dalla frenesia del presente o dal bisogno di risultati immediati. Fermarsi a ragionare, concedersi il tempo di analizzare le proprie scelte e di comprendere se rispondano solo a necessità contingenti o contribuiscano davvero alla direzione che si vuole intraprendere, è un esercizio di lucidità e di responsabilità.

Ecco perché la ricerca del proprio talento non è vanità, ma un atto di responsabilità. Costruire una carriera unica significa conoscersi a fondo e riconoscere i propri margini di crescita: capire cosa ci distingue e dove possiamo davvero incidere. È un processo lento, fatto di prove, di successi e di errori, ma resta l’unico modo per trasformare la consapevolezza in un’identità solida e riconoscibile.

Costruire un’identità professionale richiede tempo, coerenza e una direzione chiara. Lo stesso vale per un brand: la sua forza non nasce dal cambiamento continuo, ma dalla capacità di evolvere senza perdersi. In questo senso, la storia di Chopard è un riferimento emblematico.

Fin dalle origini nel 1860, la Maison ha fatto dell’esplorazione la propria cifra. Nata come laboratorio di orologeria di precisione, ha poi ampliato il proprio universo alla gioielleria e all’haute joaillerie, unendo l’ingegno tecnico alla ricerca estetica. Ogni passaggio non è stato una rottura, ma un’evoluzione coerente, guidata da una visione familiare di lungo periodo. La fondazione di Chopard Manufacture, nel 1996, ne è l’esempio più evidente: riportare internamente la produzione dei movimenti significava investire sul tempo stesso, controllarne la qualità e costruire indipendenza.

L’identità è riconoscibile perché nasce da un linguaggio chiaro. Le creazioni iconiche, dagli Happy Diamonds, simbolo di libertà e movimento, alla purezza geometrica di Ice Cube, esprimono un equilibrio tra tradizione e innovazione, tra artigianato e visione.

La coerenza si riflette anche nelle collaborazioni che la Maison ha scelto nel tempo. Dal legame con la Mille Miglia, dove la precisione dell’orologeria incontra la passione per la velocità, a quello con il Festival di Cannes, di cui Chopard è sponsor ufficiale dal 1998, realizza ogni anno una collezione ad esso dedicata, la Red Carpet Collection appunto e crea ogni anno la Palme d’Or, l’ambito premo della kermesse cinematografica. Ogni partnership nasce da una vera affinità di valori: la celebrazione del tempo, della bellezza e del saper fare, trasformandosi in un dialogo tra mondi che condividono la stessa idea di eccellenza e durata.

Come in un percorso personale, l’unicità di Chopard non è una ricerca di distinzione, ma di coerenza. Essere riconoscibili, nel lavoro come nel lusso, non significa fare di più, ma fare meglio, restando fedeli al proprio metodo e alla propria visione. È un principio che vale per chi costruisce orologi, gioielli o carriere: l’identità non si dichiara, si affina nel tempo.

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