Lavoro e università: una società meritocratica?


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Mario e Luigi sono fratelli. Entrambi indossano una salopette, hanno i baffi a manubrio e le loro vite sono identiche fino a che Mario, al contrario di Luigi, decide di andare all’università. Mario studia per tre anni, poi altri due e altri due e altri due. Luigi, invece, lavora come idraulico.

E mentre Mario vive dignitosamente, va in vacanza, ha una BMW e anche una seconda casa, Luigi si deve accontentare di un monolocale in affitto, non può mai andare in ferie e deve sopportare condizioni lavorative fisicamente stancanti.

Chiedo: Luigi se l’è meritato? O forse è Mario a esserselo meritato? In altre parole, possiamo giustificare questa disuguaglianza in base a qualche criterio meritocratico? Certo! Mario ha studiato e “what you earn depends on what you learn”, giusto?

Consideriamo un altro esempio. Vi siete mai chiesti perché i taxi a Londra costino così tanto? La ragione è semplice: per diventare tassisti, i Londinesi devono superare quello che il New York Times ha definito “il più difficile esame al mondo.” Non solo devono imparare a memoria tutte le 25,000 strade che formano quel labirinto urbano che è Londra, ma devono anche sapere qual è il modo più veloce per raggiungere la meta del passeggero.

Nonostante i quattro anni di duro studio e pratica, un candidato su due non passa l’esame. Quelli che lo superano, comprensibilmente, si fanno pagare di più, come farebbe, ad esempio, un neurochirurgo.

Negli ultimi anni, tuttavia, il mercato della mobilità a quattro ruote a Londra è cambiato: la gig economy—con Uber in prima fila—è scesa in campo. E siccome è il GPS di Uber a indicare ai propri autisti il percorso più rapido, gli autisti di Uber sono unskilled workers. E questo si riflette nei prezzi.

Se dall’aeroporto di Heathrow fino al centro città un tassista chiede intorno ai £100, un Uber vuole £35. I primi, infatti, si fanno pagare circa £3.80 a miglio, mentre i secondi £0.81. La conseguenza? Scioperi e cause. Uber è accusato di aver ridotto i guadagni di 30,000 tassisti. Infatti, dato che i due servizi sono identici, il prezzo minore attrae più clienti. Così Uber si arricchisce e i tassisti si impoveriscono.

Ora, possiamo giustificare questa disuguaglianza in base a qualche criterio meritocratico? Non dovrebbero essere i tassisti quelli che “se lo sono meritato”? Perché allora loro perdono e chi guida per Uber vince?

Il punto è che nessuno dei due vince. Solo Uber vince. Ed è questo, personalmente, che mi angoscia riguardo al futuro del lavoro. Crescendo mi era stato detto dagli adulti, dai media e dai politici (nonché dai film e cartoni animati) che col merito e l’indipendenza puoi raggiungere tutto se ci provi. Questa, scopro, è una bugia.

Se infatti il tassista londinese è oggi tra i perdenti, il suo avversario a bordo di un Uber lo è altrettanto. La gig economy (o il freelancing se si preferisce) è un’illusione. Un Uber costa meno non solo perché il suo pilota non ha skills, ma perché Uber non è un’azienda e non paga un salario ai suoi dipendenti perché non ha dipendenti. Senza salario, niente assicurazione sanitaria, piano pensionistico, ferie, spese aziendali coperte—nulla. L’autista di Uber è un perdente anche lui. L’indipendenza e il merito non hanno significato—o perlomeno, lo hanno, ma solo per alcuni.

Nel mio ultimo articolo, riflettevo su un rapporto—quello tra lavoro e università—che interessa il 20% degli Italiani (quelli con una laurea). Ma l’articolo di Ludovica Costantini mi ha fatto riflettere: e la gente che la laurea non può o non vuole prenderla? La risposta è facile: all’interno di questo gruppo sociale (chi la laurea non ce l’ha), criteri meritocratici non esistono perché perdono tutti. Distinzioni esistono (e meriti si possono quindi solo attribuire) tra laureati e non-laureati.

Questa è l’intuizione del filosofo americano Micheal J. Sandel nel suo libro Democracy’s Discontent. Le élite politiche e finanziarie—perlopiù detentrici di titoli universitari—guardano dall’alto in basso chi la laurea non ce l’ha, proponendo criteri meritocratici del tipo: “ho studiato, ho successo, me lo merito” e, di conseguenza, “non hai studiato, non hai successo, te lo meriti.”

Implicito in “You can make it if you try!” è un ragionamento che suona come un insulto, un rimprovero. Se l’unico modo per farcela è provarci, e tu non ce l’hai fatta, non ci hai provato. La colpa, perciò, è solo tua. Non solo, quindi, il lavoro attuale ha prodotto disuguaglianze stellari (che eludono ogni controllo individuale), ma la mentalità intorno a quelle disuguaglianze ha anche causato rimostranze e rancore da parte di quella gente il cui lavoro, sentivano, non veniva apprezzato per quello che era, ma anzi messo da parte.

Così, quello che Sandel chiama diploma divide entra nella società. Nel non così lontano 2016, Trump vinse due terzi dei votanti bianchi senza diploma, mentre chi il diploma ce l’aveva votò per Clinton. Ugualmente, i laureati britannici votarono per rimanere nell’Unione Europea, mentre i non-laureati votarono per abbandonarla.   

 La cosa forse più allarmante in tutta questa storia è che il dibattito pubblico a proposito è morto. Non so chi l’abbia ucciso, ma in questo pezzo ho cercato di resuscitarlo. Dobbiamo interrogarci intorno al futuro del lavoro per le nostre società. Dobbiamo interrogarci intorno al ruolo di mobilità sociale dell’educazione superiore. Dobbiamo interrogarci intorno alla dignità—civica e lavorativa—che crediamo il lavoro debba avere. Dobbiamo interrogarci intorno a se e come vogliamo che tutti possano vivere vite decenti e contribuire, col loro lavoro, al bene comune e, soprattutto, guadagnarsi stima e riconoscimento sociale, che abbiano o no un diploma universitario.

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