In questa intervista con il Dott. Gianluca Dettori, Chairman e General Partner di Primo Capital, uno dei più importanti fondi di Venture Capital del panorama italiano con oltre 500 milioni di euro gestiti, abbiamo affrontato svariati temi riguardanti l’ecosistema startup italiano e internazionale.
In particolare, la nostra conversazione ha messo in luce i fattori di differenziazione tra l’ecosistema italiano e quello europeo, nonché il ruolo dell’hype nel contesto delle nuove tecnologie, con uno sguardo al potenziale IPO di OpenAI e alle analogie con alcune delle più significative bolle speculative della storia.
Infine, la discussione si è concentrata sull’evoluzione delle startup italiane nei prossimi anni e su alcuni fondamentali suggerimenti destinati ai giovani imprenditori di domani.
Quali caratteristiche dell’ecosistema italiano ritiene possano favorire la nascita di startup globalmente competitive, e cosa manca all’Italia per arrivare ad un livello simile a quello degli altri ecosistemi europei?
Abbiamo indubbiamente un talent pool molto ampio, con numerosi talenti in ambito tecnologico. Inoltre, siamo molto competitivi nel settore ingegneristico e produciamo alcuni dei migliori fisici al mondo, per cui ritengo che in Italia si disponga di una solida base tecnologica grazie ad un’infrastruttura universitaria molto positiva.
L’elemento mancante risiede nei capitali di venture capital: l’Italia è un Paese sottoinvestito, con livelli di finanziamento circa dieci volte inferiori a quelli di Francia e Germania, e due-tre volte inferiori rispetto a quelli della Spagna.
Inoltre, nonostante non manchino gli imprenditori o l’imprenditorialità in senso stretto, non è presente una base sufficientemente ampia di capacità imprenditoriali nel settore startup. Infatti, fondare una startup o una scale-up ad alta crescita, altamente tecnologica e orientata ai mercati globali, è ancora qualcosa di particolare e relativamente nuovo; di conseguenza, l’esperienza in questo ambito è limitata, pur essendo fondamentale per generare billion-dollar companies.
Come definirebbe il ruolo di Primo Capital nel supporto delle startup italiane e quali criteri guidano le vostre scelte di investimento?
Siamo tipicamente specializzati nell’early stage, per cui finanziamo le fasi iniziali delle startup, concentrandoci su specifici domini tecnologici e investendo in quattro principali ambiti: software/AI e cybersecurity; il settore spaziale, che comprende sia hardware per il volo nello spazio sia applicazioni spaziali e terrestri basate su infrastrutture spaziali; il settore climate; e infine l’healthcare. In questi ambiti, gli investimenti tipici si collocano tra il milione e i quattro milioni di euro.
I criteri di investimento seguono gli standard del venture capital, chiaramente con particolare attenzione all’early stage. Dunque, è fondamentale avere una investment thesis e una visione chiara del mercato in cui la startup opera: valutiamo che ci sia un’opportunità concreta, che la soluzione proposta si adatti al mercato e risolva in modo efficace le problematiche esistenti, e che la strategia di go-to-market sia coerente. Analizziamo tutti questi elementi, insieme all’aspetto competitivo e alla presenza di un vantaggio competitivo sostenibile da parte della startup target.
Infine, gran parte del nostro lavoro consiste nel valutare il team dei fondatori: analizziamo se possiedono le caratteristiche necessarie per portare avanti un progetto di crescita veloce e ad alto impatto. Inoltre, attribuiamo notevole importanza alla nostra percezione diretta, supportata da indagini e reference call sulle loro esperienze precedenti e sui risultati raggiunti.
Nel contesto attuale, molte startup nascono sfruttando tecnologie sviluppate da aziende come OpenAI o Google. Pensa che questo possa alimentare una bolla nel settore AI?
Sicuramente si sta formando una bolla, come avviene in ogni grande cambiamento tecnologico: è successo con le Dot-com, con le crypto in scala più ridotta e succederà anche con il quantum computing.
Con l’hype, spesso tutti si precipitano sul mercato ed i numeri perdono significato. Come in fisica, ciò che sale prima o poi riscende: alcune realtà sopravviveranno e diventeranno colossi, molte altre scompariranno in quanto prive di un vantaggio competitivo sostenibile.
Tuttavia, lo stack dell’AI è ancora in fase di sviluppo, per cui, per il momento, siamo ancora in una fase iniziale del mercato. Inizialmente, gli investimenti erano concentrati sulla parte infrastrutturale (data center, chip, Large Language Model), mentre oggi ci si sta spostando verso i livelli superiori dello stack, fino ad arrivare alle applicazioni, dove le opportunità rimangono ampie ed in gran parte inesplorate.
Secondo lei, quale impatto avrà nel breve-medio termine l’IPO di OpenAI? Si notano alcune analogie con la bolla delle Dot-com: anche OpenAI sembra sfruttare l’hype tecnologico, pur non essendo ancora profittevole. Qual è la sua visione su questa dinamica?
Onestamente, se dovesse avvenire, questo IPO rappresenterebbe un momento di svolta e probabilmente il culmine dell’hype sull’AI. OpenAI ha sviluppato tecnologie state of the art, ma proprio per questo ha vissuto su un hype molto forte: alcuni numeri e dichiarazioni che ho visto sono difficili da credere e chiaramente sfruttano questo aspetto.
In ogni caso, è difficile fare previsioni precise. La partenza di OpenAI è stata esplosiva: nata come no-profit e incubata per alcuni anni, ha successivamente raggiunto una versione molto matura, con una crescita mai vista prima nella storia dell’informatica. Resta da capire cosa ci attende, considerando anche la forte competizione globale, proveniente non solo dagli Stati Uniti ma anche dalla Cina. In generale, esistono ancora molte questioni aperte sull’AI e sui tempi necessari per realizzarne il pieno potenziale.
Sulla base di questi fattori, probabilmente sarà un IPO di successo e raccoglieranno ingenti capitali, ma cosa accadrà negli anni successivi è difficile da prevedere.
In che misura i settori tradizionali del Made in Italy stanno beneficiando dell’innovazione portata dalle startup? Esiste una tendenza delle grandi imprese italiane ad acquisirle ed integrarle strategicamente?
La risposta, purtroppo, è che nessuno ne sta ancora traendo pieno beneficio. Non ho mai riscontrato una particolare attitudine da parte delle imprese italiane medio-grandi nell’acquisire startup, comprenderne il potenziale strategico ed integrarle nei propri processi aziendali per incrementare la competitività sui mercati.
L’Italia sta perciò scontando l’assenza di “Big Tech”, disponendo principalmente di grandi system integrators. Peraltro, questa carenza di un catalizzatore per l’innovazione non è una criticità esclusivamente italiana, ma si estende quasi all’intero panorama europeo. Lo sviluppo futuro dell’ecosistema richiederà una stratificazione delle competenze e dell’esperienza, ed è necessario che ex-dipendenti di startup di successo tentino di intraprendere la carriera imprenditoriale.
In tal senso, è lecito attendersi che da aziende come Bending Spoons o Satispay possa emergere una nuova, importante generazione di imprenditori.
Qual è il principale ostacolo culturale che le startup italiane incontrano nell’internazionalizzazione e quale approccio dovrebbero invece adottare sin dall’inizio?
Ritengo cruciale adottare una mentalità globale sin dall’inizio. Infatti, in Italia esiste una tendenza diffusa a contare su un mercato domestico ritenuto sufficientemente ampio da permettere di trascurare, almeno inizialmente, l’espansione internazionale.
L’esempio dell’Estonia è lampante: l’impossibilità di contare su un mercato interno di poco più di un milione di abitanti obbliga strutturalmente le startups ad internazionalizzarsi. Questo fattore le ha permesso di generare decine di startup di successo, inclusa la nota Skype. Da ciò, le startup italiane devono trarre ispirazione, guardando al mondo intero come proprio potenziale mercato di riferimento, senza concentrarsi solamente sulle dinamiche nazionali.
Qual è il potenziale di crescita ancora inespresso dell’ecosistema startup italiano e quali fattori ritiene saranno determinanti per sbloccarlo nei prossimi 5-10 anni?
Ritengo che il potenziale di crescita sia ancora ampiamente inespresso. Disponiamo di alcune caratteristiche fondamentali: una nazione da 60 milioni di abitanti, un sistema accademico di altissima qualità che da sempre produce conoscenza e un DNA imprenditoriale fortemente radicato nella nostra cultura. Ciononostante, per innescare un cambiamento significativo, è indispensabile un ritorno delle startup al centro delle policy governative, come avvenne 15 anni fa. È necessario trasportare la nostra eccellente capacità di produrre ricerca e tecnologia in voglia di “fare impresa”.
Se dovesse identificare i pilastri fondamentali per trasformare un’idea innovativa in un’impresa scalabile e di successo, quali sarebbero i suoi consigli principali per i giovani imprenditori?
Non esiste una formula universale, ma ritengo che alcuni pilastri siano fondamentali. Alla base di tutto vi è, indubbiamente, un team competente. Costituisce un vantaggio strategico decisivo avere nel top management figure con esperienze pregresse in startup di successo: questo approccio previene errori comuni, benché banali, e funge da elemento di rassicurazione per gli investitori.
Segue l’identificazione, indispensabile, del Product-Market-Fit: bisogna dimostrare che esiste un bisogno di mercato reale e che il prodotto offerto lo risolve efficacemente. Sconsiglio vivamente di cercare capitali senza una chiara visione a riguardo; è preferibile, invece, sperimentare a basso costo per comprendere profondamente l’opportunità che si intende cogliere. L’ultimo, ma non meno importante consiglio, è quello di sognare in grande. È necessario identificare problemi di portata globale che vi appassionino, e sviluppare una soluzione brillante.
Dalle parole del Dr. Dettori emerge chiaramente il paradosso del sistema imprenditoriale nazionale, contraddistinto da un’eccellente capacità di produrre conoscenza e ricerca, ma anche dalla cronica difficoltà nel tradurle in idee imprenditoriali scalabili ed internazionali. Per superare questo limite vi sono tre pilastri: un approccio rigoroso al Product-Market-Fit, una mentalità globale sin dal “giorno zero” e la progressiva stratificazione delle competenze all’interno del nostro tessuto economico.
Sono proprio questi ultimi i fattori che stanno alimentando una nuova generazione di imprese italiane capaci di competere globalmente, come dimostrano casi virtuosi quali Bending Spoons e Satispay, veri e propri incubatori di talento imprenditoriale.
Tuttavia, per consolidare questo cambio di passo, sarà necessario un ecosistema che sostenga l’innovazione, ad esempio tramite politiche pubbliche che premino il rischio imprenditoriale accelerando il progresso tecnologico, ed un sistema accademico in grado di incentivare gli studenti a trasformare in impresa la propria ricerca scientifica.
In questo modo, l’Italia potrà trasformare il suo DNA imprenditoriale tradizionale in una leva per diventare un Paese che non solo produce idee tecnologiche, ma che compete con successo sui mercati tecnologici globali.