L’università in cui ti laurei determina davvero il tuo futuro lavorativo?


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Nel mondo del lavoro, la specializzazione è un fattore determinante. Sia un manager che un data scientist studiano per anni. E l’unica porta d’accesso a questo sapere rimane l’università. Ma di università ce ne stanno migliaia. Alle aziende interessa davvero quale frenquentiamo?

In tutto il mondo, da sole sei università sono usciti 118 miliardari, per un patrimonio collettivo di 3.378 miliardi di dollari. Da queste stesse sei università sono usciti anche 413 Premi Nobel. E questo non è certo dovuto al numero di studenti iscritti. Columbia, Cornell, Harvard, Yale, Princeton e Pennsylvania — sei delle celebri Ivy League — hanno infatti una media di 20.000 studenti per ciclo di istruzione, a fronte, per esempio, della Università di Roma “La Sapienza”, che ospita sei volte tanti studenti. E a chi potrebbe pensare che questi 118 casi siano delle eccezioni tenga a mente che uno studente di Harvard, dopo soli sei anni dalla laurea, guadagna intorno ai $100.000 annui. Sono cifre notevoli, ben superiori a quelle dei giovani e delle giovani che escono dagli atenei italiani.

Guardando i numeri, sembrerebbe proprio che l’università frequentata influenzi notevolmente il futuro lavorativo. Più selettiva l’università, migliori le prospettive lavorative. Certo, potrebbe anche darsi che questo non sia merito dell’università. In fondo, gli studenti che accedono a queste istituzioni sono o incredibilmente intelligenti o incredibilmente facoltosi o entrambe le cose. In un caso come nell’altro, hanno sufficienti abilità e agganci per entrare nel mondo del lavoro a testa alta e fare strada velocemente. Viceversa, per un motivo o per un altro, molti giovani promettenti devono accontentarsi di un’educazione nella media, senza poter entrare nei network elitari delle top 20 università del mondo.

In questo caso, lavorare diventa in salita, con una vetta probabilmente lontana e sicuramente irraggiungibile se è vero che gli istituti di consulting, banking e investment sono più interessati al nome scritto su quel pezzo di carta noto come laurea che alla persona
che ha preso quel documento. E se anche le big companies preferiscono studenti provenienti dalle top business school, allora per lo studente medio la carriera lavorativa finisce nel momento in cui inizia il proprio corso di studi in una scuola che non è tra le
migliori. “Si credeva che la reputazione di una scuola fosse indicativa del talento che era possibile ottenere,” ha recentemente confessato Christine Cruzvergara, direttrice esecutiva di “career education” a Wellesley College nel Massachusetts, USA.
Eppure, negli ultimi anni, la pandemia e la crescente enfasi su un personale diversificato ha spinto molte compagnie a cercare i dipendenti di domani in scuole altre dalle solite (quelle che Forbes ha chiamato le 20 New Ivies). Il nome conta, ma non è
tutto. Ed anche in Italia sembra essersi fatta strada quest’idea tra i “piani alti”. Dei primi 10 manager italiani secondo Forbes Italia la metà ha ottenuto una laurea presso un’università pubblica italiana, quattro si sono laureati in atenei prestigiosi all’estero e uno è stato in Bocconi.

Sembra proprio che gli studenti che oggi si trovano a dover decidere il proprio percorso domani stiano vivendo un momento di transizione. L’università prestigiosa certo aiuta, ma questo non esclude che si possa fare carriera anche senza. Ma per capire cosa serva e fino a che punto sia possibile farlo bisogna rivolgersi a chi assume i neolaureati: le aziende.

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