Mobilità sostenibile: ultima campanella per l’Europa. Spunti dall’esperienza cinese.


Negli ultimi anni i governi europei hanno compiuto grandi sforzi per incentivare la mobilità sostenibile. Al momento, la situazione appare frammentata. Nonostante incentivi, campagne di sensibilizzazione e investimenti pubblici, la maggioranza della popolazione preferisce consumare modalità di trasporto classico rispetto alle alternative disponibili. 

E sebbene vi siano realtà in cui il coinvolgimento è stato maggiore (in particolare nel nord Europa, nelle grandi concentrazioni urbane), pochi cambiamenti hanno avuto luogo in realtà come quella italiana. La gran parte della popolazione continua a spostarsi nelle stesse modalità di sempre, rallentando il percorso verso i target UE. Consci (non tutti, non sempre) dei rischi derivanti da una mancata conversione ecologica, la traiettoria europea non sembra avere grandi margini di miglioramento nel prossimo futuro, come testimoniato dal recente ammorbidimento degli obiettivi sulle emissioni di CO2. In parallelo, esiste una realtà in cui la combinazione di diversi fattori ha permesso, almeno nelle grandi realtà urbane, la diffusione e transizione a modalità di trasporto maggiormente sostenibili: la Repubblica Popolare Cinese (RPC).

Perché dovremmo allarmarci?

Secondo gli ultimi dati disponibili, oltre il 50% delle auto vendute in Cina nel 2024 appartiene alla categoria “Veicoli a Nuova Energia” – ovvero plugin e full ibridi o elettrici, rappresentando più della metà delle vendite globali di vetture a basso impatto.

Quasi tutte le flotte di trasporto pubblico e taxi delle più importanti città del Dragone, le cosiddette “città tier 1”, sono state interamente convertite in veicoli a emissioni zero, e la rete di ricarica cittadina, attraverso colonnine e dispositivi simili, riesce a supportare il fabbisogno giornaliero di energia. Malgrado permangano enormi problematiche relative alla sostenibilità dell’industria green, riguardanti l’approvvigionamento di energia (ancora dominata da fonti non sostenibili) e l’impronta ecologica di processi quali estrazione e raffinamento di componenti essenziali per il funzionamento delle batterie, il settore della mobilità sostenibile mostra di essere sulla buona strada. Ovviamente, occorre sempre tenere a mente le enormi differenze tra simili metropoli e le tante realtà rurali, nelle regioni più interne, dove la situazione in termini di inquinamento dell’aria ed emissioni di CO2 rimane assolutamente insufficiente. 

Appare strano che un paese del genere sia riuscito in così poco tempo a creare la filiera più competitiva al mondo. Ma ciò che appare impossibile è in realtà il risultato della combinazione di politiche industriali e pianificazione lungimirante. Se in Europa il focus è sempre stato rivolto prevalentemente alla preservazione dell’ambiente, alla salvaguardia della salute dei cittadini e degli spazi antropizzati, lo sviluppo cinese nasce da due preoccupazioni: la dipendenza da energia e risorse estere, e le terribili condizioni di vita nelle metropoli in ascesa.
Nel periodo tra metà anni novanta e inizio duemila, quando il mondo sviluppato si concentrava sullo sviluppo delle tipologie di trasporto già esistente (leggi: macchine a benzina, il cui carburante non era mai stato tanto conveniente), l’allora ministro della scienza e tecnologia Wan Gang propose una strategia rivelatasi vincente: se il nord globale punta sul perfezionamento delle tecnologie esistenti, la Cina dovrà svilupparne di nuove. Se i paesi industrializzati possiedono il monopolio sull’approvvigionamento dei materiali, la Cina dovrà trovarne di alternativi, pena il diventare un paese dipendente dalle importazioni.
Non a caso, la RPC di quegli anni stava rischiando di diventare il primo importatore di petrolio al mondo, e i report statistici suggerivano una forte correlazione tra l’aumento dello smog cittadino e l’incidenza di morti per malattie respiratorie.

Iniziò quindi una forte campagna industriale volta allo sviluppo delle forze produttive, sostenuta da forti sussidi per le nascenti aziende, la cui competizione ha prodotto negli anni le attuali BYD, NIO, ecc. 

Aiuti alle aziende, prestiti a tasso agevolato e competizione sfrenata hanno permesso una crescita esponenziale in un terreno ancora inesplorato. Assumendo il controllo di un settore considerato inquinante (l’estrazione e soprattutto il raffinamento dei materiali per la costruzione di batterie elettriche è ancora oggi un ambito a forte impatto ambientale), la Cina ha giocato in anticipo, riuscendo a recuperare l’enorme gap industriale con i paesi G7.

Col tempo il mercato della mobilità sostenibile si è concentrato nelle mani di pochi grandi players, e le enormi economie di scala del mercato interno hanno agevolato lo sviluppo del settore. 

I risultati tangibili sono arrivati negli ultimi cinque anni. La dipendenza energetica e la qualità dell’aria nelle metropoli è sostanzialmente migliorata, e il governo ha potuto progressivamente congedare sussidi ed altri aiuti statali. La ricerca ha portato enormi risultati: nel 2023 è stato annunciato un nuovo tipo di batteria elettrica, chiamata “blade battery”, capace di raddoppiare autonomia e spazio nei veicoli elettrici, escludendo dal processo produttivo alcuni tra i materiali più costosi e dannosi per l’ambiente. Insomma, una tra le filiere più inquinanti al mondo è stata riconvertita in meno di venti anni.

Un piccolo accenno deve essere fatto anche alla mobilità ferroviaria, che può contribuire molto nella riduzione dell’impatto ambientale. La costruzione di decine di migliaia di chilometri di reti ad alta velocità ha notevolmente migliorato la qualità degli spostamenti nazionali, velocizzando e riducendo l’impatto ecologico. Considerato da tutti un fallimento assicurato, il piano “sette verticali, sette orizzontali” è riuscito a realizzarsi in meno di dieci anni, rendendo il paese leader anche nello sviluppo della mobilità su rotaie. 

Ovviamente, il percorso è stato segnato anche da diversi insuccessi: dallo scandalo del 2009 delle cosiddette “auto fantasma”, aziende che falsificavano le quote di auto prodotte per ottenere sussidi, alle inevitabili mis-allocations e fallimenti sul breve periodo.

Il risultato rimane positivo. Lo sviluppo di un settore autonomo di mobilità sostenibile permette indipendenza da ingerenze estere, e l’inquinamento cittadino è significativamente diminuito.

A che punto siamo in Europa?

Negli anni sono stati commessi molti errori. In primis, gran parte dei sussidi sono stati rivolti ai consumatori, non ai produttori, disincentivando la produzione di veicoli dalle case produttrici. Inoltre, i fondi riservati alla supply side sono stati quasi esclusivamente rivolti ad aziende già leader di mercato, impedendo la creazione di una competitività serrata come accadde in Cina. La crisi di tali imprese nell’ultimo periodo non fa che testimoniare la veridicità dell’affermazione.  

Non tutto è perduto. I 27 membri continuano ad avere una rete di trasporti sostenibili maggiormente diffusa se confrontata col resto del mondo. È evidente quanto la qualità e l’attenzione dedicata al trasporto green sia maggiore in Europa piuttosto che in Cina, per non parlare della qualità di vita nelle città. 

Il problema risiede nella marginalità dello sviluppo europeo del settore. Sprovvisti di una supply chain adeguata e di un piano comune (anche se esistente esso viene sempre meno rispettato) per finanziare e promuovere le imprese e la ricerca, l’Unione Europea rischia di rimanere bloccata all’attuale livello di diffusione del trasporto sostenibile, o peggio ancora, totalmente dipendente dalle importazioni cinesi. L’accelerazione tecnologica appare infermabile, e le attuali tecnologie europee non saranno ancora a lungo l’avanguardia della sostenibilità. Come per loro trent’anni fa, si pone oggi per noi la questione della sicurezza e dell’indipendenza strategica. Delegare i processi produttivi a paesi terzi, rinunciando alla nostra industria e ricerca, ci pone in una dialettica da cui è difficile uscire come vincitori. Il controllo e l’indipendenza anche in materia di mobilità sostenibile è una questione di primaria importanza, data l’enorme mole di dati estraibili. Non a caso già da tempo l’utilizzo di macchine elettriche cinesi è proibito nei siti militari, data la criticità dei dati rilevabili via GPS. 

Che fare?

Le vie percorribili sono molte. Una cosa è certa: non si può sperare in un miglioramento della rete di mobilità sostenibile prescindendo da una maggiore coesione europea. Se gli stati membri non cercheranno di integrare, e soprattutto rispettare, i propri obiettivi nei prossimi anni, sostenendo la cooperazione tra le varie realtà industriali del Vecchio Continente, ben poco potrà progredire nel campo R&D e vendite. I singoli stati non possono competere con mercati come quelli statunitensi e cinesi. 

Il mondo giovanile può e deve essere il vivaio della rinascita dell’industria europea. Università, startup e ricercatori: l’innovazione non può che venire dal basso della piramide demografica. Molto potenziale inespresso, cresciuto e formatosi nelle nostre università è costretto ad emigrare, facendo perdere anno dopo anno conoscenza e abilità all’industria europea. 

Le potenzialità sono di fronte ai nostri occhi, e la situazione di partenza è più che ottima. Dalla mobilità sostenibile dipendono anche la nostra sicurezza, indipendenza e libertà. Dovesse il nostro continente non riuscire a capirne la gravità, cadremo vittime di chi ha saputo intercettare meglio il cambiamento. Le conseguenze politiche ed economiche sarebbero gravissime, impattando gran parte del tessuto industriale europeo.

La domanda non può più riguardare la necessità o meno di una conversione ecologica, men che meno le conseguenze di una mancata transizione: queste ci sono ben chiare. Essa deve invece chiedersi se siamo ancora capaci di innovare, di creare, di stare al passo del mondo; anzi, un passo avanti. 

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