Napoli tra sacro e profano


L’arte presepiale come forma di resistenza al turismo aggressivo

A Napoli il presepe non è un oggetto stagionale né un semplice addobbo natalizio. È un linguaggio; un racconto collettivo che attraversa i secoli e continua a trasformarsi, assorbendo il presente senza mai smettere di dialogare con il sacro. Tra pastori, Re Magi e capanne, trovano posto artigiani, bottegai, pescatori, ma anche figure contemporanee: politici, calciatori, celebrità, figure del quotidiano. Il presepe napoletano è una rappresentazione del mondo così com’è, non di come dovrebbe essere. Ed è proprio in questa convivenza di sacro e profano che risiede la sua forza.

Il cuore simbolico e materiale di questa tradizione è San Gregorio Armeno, una strada diventata sinonimo stesso di arte presepiale. Qui le botteghe non sono solo luoghi di vendita, ma laboratori di immaginario: spazi in cui l’artigianato incontra la satira, la religiosità popolare si mescola alla cronaca e l’identità napoletana prende forma nel dettaglio di un volto di terracotta.

Tra queste botteghe, al civico 16, c’è quella di Annalisa Visconti. La sua storia non nasce da una tradizione familiare tramandata, ma da una scelta personale, quasi istintiva. “Ho iniziato quando ero proprio piccola”, racconta. “Mi alternavo tra la scuola e il lavoro, poi mi sono dedicata completamente a questo mestiere perché mi è piaciuto subito. Ci vuole passione e pazienza, e io le ho entrambe”.

Annalisa entra nel presepe dal basso, dal gesto ripetuto: lo stampaggio, l’argilla, l’attesa dell’asciugatura, la cottura in forno. “Facevo tanti pastori al giorno”, ricorda. Poi la svolta: la pittura. “Ho visto che la pittura mi piaceva di più dello stampaggio”. È lì che il mestiere diventa espressione, che ogni volto inizia a raccontare una storia diversa. Dietro ogni statuina c’è un lavoro invisibile che mal si concilia con i ritmi accelerati del consumo contemporaneo.

Definire il presepe napoletano come folklore significa ridurlo a cartolina. In realtà, si tratta di un’arte viva, in continuo aggiornamento, che reagisce ai mutamenti sociali e politici. Ogni nuova figura inserita nel presepe è una presa di posizione, uno sguardo ironico o critico sul presente. Il sacro non viene dissacrato, ma reso umano; il profano non è semplice provocazione, ma parte integrante di una visione del mondo in cui tutto convive.

Il presepe napoletano, documentato già dal 1052 e sviluppatosi pienamente tra il XV e il XVIII secolo, conosce il suo secolo d’oro nel Settecento. È in questo periodo che la semplice grotta si trasforma in un microcosmo urbano: taverne, botteghe, scene di vita quotidiana affiancano la Natività. Il sacro non viene isolato, ma immerso nella realtà. Personaggi come Benino, il pastore che dorme e sogna il presepe, il pescatore, simbolo del “pescatore di anime”, e i Re Magi , che arrivano in ritardo, come il mondo che fatica a fermarsi, diventano elementi fondamentali di una narrazione complessa.

Eppure, per Annalisa, il centro resta uno solo: “Per me il presepe è la Natività. La nascita di Gesù bambino, con tutti i personaggi che portano i doni. Non vedo altro”. Una visione che ridimensiona la lettura più spettacolare o ironica della tradizione e la riporta a un nucleo intimo, familiare. Non a caso, ciò che più la appassiona è proprio la scena della Natività: “Perché vedi la famiglia”.

Negli ultimi anni, l’esplosione del turismo di massa ha profondamente trasformato San Gregorio Armeno e, più in generale, il centro storico di Napoli. Quella che era una strada di artigiani è sempre più percepita come un’attrazione turistica, una tappa obbligata da attraversare rapidamente, smartphone alla mano, alla ricerca della foto perfetta.

Il sovraffollamento costante rende difficile il lavoro quotidiano delle botteghe, altera i rapporti con il quartiere e modifica il senso stesso del luogo. Il rischio è che la strada perda la sua funzione originaria per diventare una vetrina permanente, dove l’artigianato, l’arte stessa viene consumata visivamente prima ancora che compresa.

Il turismo, di per sé, non è un problema. Anzi, Annalisa sottolinea come il presepe continui a essere percepito come arte viva, soprattutto dagli stranieri. Ma quando diventa aggressivo, quando impone tempi, linguaggi e logiche estranee alla tradizione, rischia di snaturare ciò che incontra. 

Potrebbe sembrare che la Mia Napoli si stia svendendo, che per non guardare negli occhi le proprie difficoltà abbia deciso di metterle in vendita al compratore migliore, al fotografo migliore, così  le disuguaglianze, il pregiudizio e lo stereotipo che ci hanno sempre accompagnati mano nella mano nelle strade della città assumono la forma di  spettacolarizzazione, la cosiddetta vita semplice, che viene postata e ripubblicata, ma una volta che il turista volta l’angolo o se ne torna a casa, una volta calato il sipario e chiusa la fotocamera, il sorriso resta o è una menzogna, una forma di sopravvivenza? In questo contesto la tradizione, anziché essere valorizzata, viene semplificata, trasformata in souvenir. Il presepe smette di essere racconto e diventa merce.

Questo rischio si riflette anche nella presenza di prodotti non artigianali. “Qualcosa di falso c’è”, ammette: “Cerchiamo di non far entrare certi prodotti a San Gregorio Armeno. La resina non potrà mai arrivare alla terracotta”. Il materiale non è solo una questione tecnica, ma simbolica: la terracotta è tempo, fragilità, lavoro lento. La resina è velocità, replica, consumo. A preoccupare maggiormente è il futuro: “È difficile oggi per i giovani”, dice Annalisa: “Il mestiere piace, ma non c’è vero interesse. Ho paura che non venga tramandato alle generazioni future”. La tradizione, senza trasmissione, rischia di diventare simulacro.

La domanda allora diventa inevitabile: che tipo di città vuole essere Napoli? Una città-vetrina, una commedia costruita per lo sguardo del visitatore, o una città viva, capace di proteggere le proprie pratiche culturali anche quando non sono immediatamente “instagrammabili”?

Il confine tra valorizzazione e spettacolarizzazione è sottile e spesso invisibile. Annalisa lo osserva ogni giorno dal suo negozio, soprattutto nei più piccoli: “Lo vedi dai bambini. C’è chi è davvero interessato, partecipa, osserva… e chi invece non mostra alcuna curiosità”. È lì che si decide il destino della tradizione, non nelle vetrine o nei social.

La tradizione presepiale napoletana, forse metafora dell’intera città, si trova oggi su un confine fragile. Da un lato, la possibilità di essere conosciuta e apprezzata a livello globale; dall’altro, il rischio di essere svuotata di senso. Valorizzare non significa esporre senza filtri, ma creare le condizioni perché un’arte possa continuare a esistere secondo i suoi tempi e le sue regole.

Se questo confine viene superato, ciò che si perde non è solo una tradizione, ma un modo di guardare il mondo. Il presepe napoletano, con la sua ironia, la sua umanità e la sua capacità di tenere insieme sacro e profano, è una forma di resistenza culturale. Proteggerlo significa scegliere che Napoli non diventi solo un parco tematico, ma resti una città che si racconta attraverso le mani di chi la vive ogni giorno.

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