Nicolò Govoni: Il vero successo come libertàdi scegliere la propria strada


Dal volontariato alla creazione di sei scuole: il percorso di un imprenditore sociale che ha trasformato le difficoltà in una missione globale.

Dove ti vedi nel prossimo futuro e qual è la tua concezione di successo?


«Per me il successo è essere libero di fare quello che voglio, che non significa ciò che più mi piace, ma poter scegliere una strada e seguirla, nel bene e nel male. Successo significa autodefinirsi, autorealizzarsi, vivere una vita che rispecchi chi senti di essere in quel momento.
Adesso vivo in Kenya da cinque anni. Non so quanto ci rimarrò: il motivo è che qui si trova la nostra scuola di punta, quella dove si fa innovazione e ricerca. Se fosse stata in Colombia o in India, sarei in quei Paesi. Non è un legame con la terra in sé, ma con la missione.
Il successo è libertà, anche quando comporta fare cose che non piacciono. Ma se le scegli, perdi il diritto di lamentarti e trovi un piacere paradossale persino nelle difficoltà. Naturalmente questa libertà è il frutto di tanti fattori: dimensione economica, formazione personale, comunità, persone con cui lavori. Tutto contribuisce. Alla fine, successo significa poter fare quello che vuoi, dove lo vuoi, con chi lo vuoi, nei momenti belli e in quelli meno piacevoli.»

Quando hai aperto la tua prima scuola a 25 anni, dove ti vedevi? Pensavi già a una rete internazionale?


«Assolutamente no. All’inizio era un pensiero ingenuo: credevo di poter delegare un progetto così giovane e nuovo. Still I Rise era nata come risposta a un bisogno immediato: la crisi migratoria a Samos. Non c’era alcuna ambizione di guardare oltre, nemmeno alle altre isole greche, figuriamoci al mondo. Non avevamo progettualità di più scuole, né di sviluppare un metodo educativo.
Poi, come spesso accade nell’imprenditoria sociale, ti fai prendere la mano, ti diverti, vedi nuove possibilità e ti lanci, anche per dimostrare a te stesso di poterlo fare. L’idea di aprire scuole nel mondo è arrivata circa un anno dopo la fondazione.»

Quando hai capito che potevi farlo per tutta la vita?


«Lo scatto è avvenuto quando sono arrivati i primi fondi, o la promessa di fondi. Subito quell’anno ho cominciato a immaginare un’espansione. Non è stato un percorso graduale: dalla prima scuola, appena nata la seconda, avevo già pianificato le successive cinque.
La timeline è cambiata per il Covid e altri ostacoli, ma la convinzione era chiara: se un donatore aveva creduto nel sogno, perché non potevano farlo due, tre, quattro persone? Così è stato, con ritardi e incidenti di percorso, ma la visione è rimasta.»

Hai avuto dei mentori che ti hanno guidato?


«Sì, diversi. All’inizio Still I Rise era un gruppo di volontari senza una vera logica aziendale. Poi una persona esperta, Fabrizio Cotza, dedicò mesi al progetto gratuitamente, facendoci fare un grande salto. Due anni fa, Stefania De Vanna, oggi consulente di Still I Rise, ci ha fatto compiere un ulteriore passo avanti: con lei abbiamo realizzato il nostro primo business plan.
Ho avuto tanti mentori, personali e organizzativi, che ci hanno aiutato nei momenti giusti per crescere.»

Come sei riuscito a creare un progetto internazionale così in fretta?


«La crescita esponenziale di Still I Rise nasce dall’approccio al core business. Siamo una non profit da un punto di vista legale, ma filosoficamente ci sentiamo più vicini a un’impresa sociale. Investiamo i fondi donati per massimizzare il ritorno, che non è economico ma di qualità del servizio.
In Italia il non profit è spesso statico: l’immaginario comune è l’associazione storica che ripete lo stesso modello dagli anni ’50. Noi invece trattiamo il donatore come un investitore, con una riconoscenza diversa, e gestiamo i progetti come veri investimenti. È un approccio più corporate al non profit, e questo fa breccia.»

Quali sono le vostre metriche di impatto? Preferisci raccontarti con numeri o in altro modo?


«Il numero di pasti o di studenti è un dato semplice da misurare, ma per me non basta. Ci sono organizzazioni che vantano numeri enormi, ma ci si chiede quale sia il reale impatto sulla vita delle persone.
Distribuire cento pacchi di riso sfama oggi, ma domani si ricomincia da capo. L’intervento umanitario spesso non riesce a fare ricostruzione di lungo periodo. Noi vogliamo che l’impatto sia trasformativo, non temporaneo.

Per questo motivo valutiamo il nostro impatto su metriche qualitative, come il tasso di felicità al giorno 1  e al giorno 100 di un bambino all’interno della Scuola: attraverso sondaggi specifici ai quali gli studenti rispondono, ci focalizziamo sull’intelligenza emotiva, sul pensiero critico, sull’imprenditorialità, il senso di appartenenza e l’autostima. Dai risultati emerge in modo nettamente visibile quale impatto stiamo portando nelle loro vite.»

A soli vent’anni sei uscito dalla tua zona di comfort. Che consiglio dai a chi teme il cambiamento?


«Molte persone crescono attraverso l’avversità, i rischi, le scommesse. Come una pianta che ha bisogno del vento per crescere forte, anche gli esseri umani necessitano di attrito per svilupparsi.
Viviamo in un mondo che ci spinge al comfort, ma la vita non può esserlo sempre. Restare nella zona di comfort per paura del rischio significa precludersi il pieno potenziale. Non ho mai incontrato nessuno che si sia pentito di aver fatto il “balzo della fede”.»

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