“Antiqua consuetudo non est servanda, si sit inutilis”, scriveva Cicerone.
La medicina è nata come arte della presenza: per secoli il medico ha curato i pazienti nei luoghi in cui vivevano — case, corti, strade di villaggi— difendendo le sue consuetudini: il gesto clinico, il letto del paziente, l’arte della semeiotica.
Da Galeno al medico condotto, la cura era un incontro fisico, un atto radicato nello spazio. Poi il Novecento ha cambiato tutto: l’ospedale è diventato il nuovo centro del sapere, progettato per malattie acute e risposte rapide, e la casa ha cessato di essere luogo di cura.
Oggi, però, la medicina è diventata una storia lunga: scompenso cardiaco, diabete, BPCO, fragilità. È la medicina della continuità, non dell’episodio.
Il paradosso è evidente: abbiamo un sistema pensato per gestire l’evento, ma viviamo in un’epoca di condizioni che non finiscono mai. È per questo che ospedali e pronto soccorso scoppiano: non perché manchi tecnologia, ma perché manca un modello.
E allora la domanda si impone: può la cura restare prigioniera di un luogo, quando la vita dei pazienti non lo è più?
Ed è proprio in questo punto di frattura che riemerge una vecchia idea, resa possibile oggi da strumenti completamente nuovi: la telemedicina.
Non è una tecnologia: è geografia clinica.
È l’evoluzione logica di una disciplina che deve tornare nei luoghi reali della vita, senza perdere precisione né intensità. Non un ambulatorio sullo schermo, ma un ecosistema distribuito che connette e integra casa, territorio e ospedale in un’unica continuità assistenziale.
Dopo una lunga fase periferica — dai primi esperimenti, negli anni Sessanta con la Nasa, alle forme iniziali di teleconsulto — la telemedicina è oggi entrata in una nuova fase: la telemedicina 3.0, capace di integrare dati continui, algoritmi predittivi e interventi clinici mirati. Il suo valore sta nel colmare un vuoto clinico preciso: tutto ciò che accade tra una visita e l’altra. È la prima architettura capace di vedere il tempo lungo della malattia, non solo l’episodio.
Le evidenze più interessanti non dicono che la telemedicina “funziona”, ma dicono il perché: riduce l’imprevedibilità clinica, in special modo nelle malattie croniche.
«Un’oscillazione improvvisa dell’andamento glicemico può precedere eventi che non sono direttamente legati al diabete, come un’infezione in fase iniziale. In questo senso, il monitoraggio continuo diventa anche un segnale d’allarme precoce» afferma il dott. Dario Pitocco, professore associato di Endocrinologia e Malattie del Ricambio all’Università Cattolica del Sacro Cuore e Direttore dell’Unità Operativa Semplice di Diabetologia del Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS.
I dati confermano questa traiettoria. Una meta-analisi pubblicata sul Journal of Medical Internet Research (2021), basata su 127 studi randomizzati e oltre 34.000 pazienti, mostra che la telemedicina è associata a una riduzione delle ospedalizzazioni — sia complessive sia legate alla patologia — con oltre un giorno di degenza in meno per paziente.
«La telemedicina ha cambiato profondamente la gestione diabetologica», osserva il dott. Pitocco. «Non solo permette di modificare la terapia e valutarne la risposta in modo molto più ravvicinato, ma anche situazioni complesse, come l’ulcera del piede diabetico — ricordiamo che il diabete è la prima causa di amputazione non traumatica degli arti inferiori — oggi possono essere valutate a distanza: attraverso immagini inviate dal paziente possiamo decidere se intervenire precocemente o se programmare un controllo più dilazionato».
Ci sono contesti in cui questo modello non è un’opzione, ma una necessità «Un esempio emblematico è il diabete gestazionale: l’assetto metabolico cambia rapidamente, settimana dopo settimana, seguendo le variazioni ormonali della gravidanza. La trasmissione continua dei dati glicemici consente un aggiustamento della terapia quasi in tempo reale, qualcosa che con le sole visite in presenza sarebbe semplicemente impraticabile», sottolinea.
Senza illusioni sostitutive: «Questo non sostituisce l’incontro fisico, che resta fondamentale per l’inquadramento clinico del paziente e delle sue comorbidità, ma apre possibilità che prima non esistevano. Anche perché il diabete è una malattia estremamente eterogenea: non tutti i pazienti hanno gli stessi obiettivi glicemici e ogni decisione va modulata sulla persona, non sul singolo valore».
L’impatto non è solo clinico. Il diabete assorbe circa il 10% della spesa sanitaria nazionale, pari a 15 miliardi di euro l’anno, in gran parte legati alle ospedalizzazioni per complicanze acute e croniche. A questi costi diretti si sommano quelli indiretti — perdita di produttività, carico sui caregiver, pensionamenti anticipati — mentre la spesa per farmaci, monitoraggio e tecnologie rappresenta ancora una quota relativamente contenuta. È in questo squilibrio che la telemedicina può incidere davvero, riducendo eventi clinici evitabili.
Il vero limite strutturale però resta solo uno: la regolamentazione. Gran parte dell’attività di telemedicina è ancora svolta fuori da un riconoscimento formale, con implicazioni organizzative e medico-legali non trascurabili.
«La sanità si sta muovendo — come dimostrano i teleconsulti tra ospedali — ma serve un modello strutturato che riconosca tempi, responsabilità e sostenibilità per i professionisti», avverte.
Cicerone sosteneva che una consuetudine inutile va abbandonata. La medicina, più lentamente, ci è arrivata: ciò che non garantisce più presenza, continuità e prevedibilità non può essere il suo futuro.
E allora la domanda finale è inevitabile:
se non cambiamo ora, che cosa stiamo davvero difendendo: la medicina o la sua abitudine?