Il gioiello come eredità
È il 1488 quando, in un triste pomeriggio fiorentino, Domenico Ghirlandaio traccia l’ultima pennellata del volto di Giovanna Tornabuoni, su una tavola lunga e fredda, oggi conservata nel Museo Thyssen-Bornemisza a Madrid. È ciò che resta di una nobile donna fiorentina, moglie di Lorenzo Tornabuoni, strappata alla vita nel parto del secondo figlio. La fanciulla viene ritratta con un pendente al collo. È un gioiello della famiglia, riposto sulla nuda carne di un petto mosso ancora dal respiro e dai battiti, quasi a voler ricostruire la simbolica appartenenza cui la vita l’ha strappata. Il sangue, la famiglia, l’eredità. Il gioiello è un pendente fatto di diamanti, rubini e perle, che lo storico Van Dijk ha sostenuto appartenere ai Tornabuoni, in quanto descritto in un documento notarile fra i doni di nozze ricevuti.
Da quel lontano 1488 ad oggi, il gioiello si è evoluto, ha cambiato pelle, forme e contenuti, nella immutabilità del segreto desiderio cui aspira: simboleggiare un legame capace di resistere al tempo.
Questa pretesa si scontra con rischi variegati, che dipendono non solo dalla capacità dei materiali di rompersi, disgregarsi, graffiarsi, ma da una forma che si assume come rappresentativa di identità. Chi indossa un gioiello, spesso indossa il vigore del padre, la gentilezza della madre, la saggezza di un volto lontano, osservato fuori fotografie che vanno sbiadendosi.
Il linguaggio è poi muto. Nessuna lingua, niente sottotitoli, nessuna possibilità di trovare altrove una risposta. Solo poche linee, riempite da materia che si assume a contenuto. Il gioiello passa, viaggia nei secoli, silenzioso, custodito in cassetti sempre nuovi, mutando dito, polso, collo, sotto una pelle in cui scorre lo stesso sangue.
Il gioiello diviene quindi contenuto, valigia in cui si infila dentro lo stretto necessario – l’amore, la rabbia, il coraggio, il sogno – ciò che siamo sicuri vorremmo ripetere ancora e ancora scorrendo con un dito sulla linea del tempo. È dunque un compito sensibile e complesso quello di chi, a tutto questo desiderio di immortalità, deve dare forma. L’orafo e il gioielliere assumono le vesti di padri confessionali, ascoltatori di vicende e intrighi sintetizzati in un piccolo oggetto da custodire gelosamente. La geografia è tutt’ora testimone dell’importanza sociale che a tali figure era riconosciuta: Via dei Coronari a Roma, Ponte Vecchio a Firenze, Hatton Garden a Londra, JewelleryQuarter a Birmingham, Zaveri Bazaar a Mumbai, Goldsmiths’ Street a Sarajevo. L’avanzata tecnologica e i nuovi assetti economici hanno reso necessario modelli produttivi e commerciali capaci di rispondere ad esigenze differenti, eppure la profonda riconoscenza che la società nutre nei confronti dei creatori di bellezza ed eredità resta immutata, perché eguale è il desiderio di raccontarsi con oggetti in grado di resisterle.
Nella frenesia d’acquisto che pervade lo scenario odierno, in cui tutto può essere sostituito, rotto e acquistato nuovamente, il gioiello si pone quale osso duro capace di mettere a repentaglio una narrazione distopica. Un gioiello non può nascere due volte. Due orologi raramente avranno vissuto esattamente lo stesso tempo, visto gli stessi luoghi, stretto lo stesso polso. E pur volendo assumere che questo fosse possibile, è irripetibile il viaggio compiuto dal gioiello nel corso dei secoli. Custodisce l’inafferrabilità di chi prima li indossava, il suo odore, le sue parole, gli occhi pieni con cui osservava il mondo, l’affetto che nei nostri confronti nutriva quando un giorno, vedendoci osservare con stupore quel piccolo oggetto lucente, sorridendo ha detto: “Un giorno sarà tuo”.