Oro etico, modello scalabile ma con qualche incognita


Per l’industria dell’oro il 2023 ha segnato un passaggio decisivo: i principali marchi della gioielleria e dell’orologeria hanno accelerato sulla tracciabilità della filiera. Una scelta dettata in parte dalla pressione dei consumatori e in parte da investitori che sempre più spesso chiedono criteri Esg verificabili.

L’oro etico, certificato da standard come Fairmined o Fairtrade Gold, garantisce condizioni di lavoro sicure, pagamenti equi e procedure estrattive meno impattanti. Ma soprattutto permette quella “tracciabilità totale” che oggi rappresenta la nuova frontiera del valore nelle filiere di alta gamma. Brand come Chopard sono emblematici. La Maison svizzera è stata la prima ad affrontare in maniera seria il tema dell’oro etico iniziato già nel 2013 il suo progetto chiamato The Journey to Sustainable Luxury che è arrivato ad ottenere il 100% di oro etico certificato nel luglio 2018. Da allora in poi tutto l’oro utilizzato da Chopard proviene da uno dei seguenti itinerari tracciabili:

– oro estratto direttamente dagli artigiani delle piccole comunità minerarie che fanno parte della Swiss Better Gold Association (SBGA) e dei programmi Fairmined e Fairtrade

– oro della RJC Chain of Custody, attraverso la partnership tra Chopard e le raffinerie certificate dal RJC.

La Maison Chopard è entrata a far parte della SBGA nel 2017 per contribuire in misura maggiore alle iniziative che mirano a migliorare le condizioni dei minatori d’oro artigianali, facendo sì che la quantità d’oro estratta in maniera responsabile aumenti. 

Negli ultimi anni “oro etico” è diventato un mantra nel mondo della gioielleria, dell’orologeria e, sempre più, anche nei prodotti finanziari legati ai metalli preziosi. Ma quanto è davvero scalabile questo modello? Possiamo tracciare l’intera filiera dal giacimento al consumatore? E che cosa resta ancora irrisolto?

In assenza di una definizione giuridica univoca, per oro etico si intende normalmente oro estratto, commerciato e raffinato nel rispetto di alcuni criteri minimi: cioè nessun coinvolgimento in conflitti armati o finanziamento al terrorismo (linee guida OCSE e LBMA), il rispetto dei diritti umani e divieto di lavoro forzato o minorile, la gestione responsabile di impatti ambientali (mercurio, deforestazione, inquinamento delle acque) e infine il rispetto delle normative fiscali e antiriciclaggio.

Su questa base si sono sviluppati diversi standard e label: LBMA Responsible Gold Guidance, Responsible Jewellery Council, Fairmined, Fairtrade Gold, iniziative di tracciabilità come Tracemark, ecc.

Il mercato mondiale dell’oro è enorme e frammentato. Una quota significativa (fino al 20% circa della produzione globale) proviene dall’estrazione artigianale e su piccola scala (ASM), spesso informale e con forti criticità sociali e ambientali. 

Proprio lì dove servirebbe di più, i sistemi “etici” faticano a entrare perché i minatori lavorano fuori da qualsiasi quadro regolatorio, spesso in aree di conflitto e le catene di approvvigionamento sono lunghe, con molti intermediari e commercianti locali. Pertanto è difficile garantire sicurezza, prezzi equi e continuità di acquisto a migliaia di piccoli operatori. Progetti come Fairmined o programmi come STAG (Scalable Trade in Artisanal Gold) mostrano che è possibile costruire filiere responsabili a partire dall’ASM, ma le tonnellate certificate sono ancora minime rispetto alla produzione complessiva. 

Una parte crescente del mercato, soprattutto nella gioielleria di alta gamma, si sposta verso oro riciclato, spesso presentato come intrinsecamente più sostenibile. Oggi oltre metà dell’oro trattato sul mercato di Londra proviene da fonti riciclate. Ma qui emergono tre problemi: intanto il termine “riciclato” ha definizioni molto ampie che includono rottame industriale e pre-consumer e permettono un greenwashing di fatto. L’oro appena estratto può “entrare” nel flusso del riciclo senza controlli sufficienti. Poi, focalizzarsi solo sul riciclo non migliora le condizioni nelle miniere perché gli incentivi per investire in progetti etici upstream diminuiscono. Inoltre il riciclato è concentrato in certi hub (raffinerie, e-waste in alcuni Paesi) e non può, da solo, soddisfare la domanda globale in crescita, specie da parte di banche centrali e investitori. 

Risultato: il modello “solo oro riciclato” è scalabile in termini di volumi per alcuni segmenti (gioielli, orologi), ma non risolve l’etica dell’estrazione e rischia di nascondere l’oro illegale dietro la parola “recycled”.

Nel segmento industriale e dell’oro da investimento, la tracciabilità ha fatto passi avanti. Per prima cosa le raffinerie accreditate LBMA devono implementare sistemi di due diligence sulla catena di fornitura, ispirati alle linee guida OCSE per i minerali da aree ad alto rischio. Esistono catene di custodia certificate, in cui ogni passaggio (miniera – esportatore – raffineria – banca/brand) è documentato e verificato da audit indipendenti. Nel mondo della gioielleria sono nate piattaforme di tracciabilità che consentono di associare a ciascun gioiello un “passaporto digitale” con informazioni su origine e trasformazioni subite. 

Tecnologicamente, poi, stiamo vedendo lo sviluppo di progetti pilota di blockchain per tracciare oro e altri minerali lungo tutta la filiera, che registrano ogni transazione e trasferimento di proprietà mentre la sperimentazione di marcatori fisici (chimici o isotopici) applicati al metallo, permettono di verificare a posteriori provenienza e cicli di riciclo. In teoria, combinando questi strumenti si potrebbe ottenere una tracciabilità quasi totale.

Nella pratica, però, restano nodi molto difficili. La parte più opaca della filiera resta l’estrazione, in particolare l’ASM. Oro proveniente da miniere illegali, zone di conflitto o con gravi violazioni dei diritti umani continua a confluire nel circuito globale passando per trader e raffinerie non aderenti agli standard principali.  Esistono molte piattaforme e standard di tracciabilità, ma raramente dialogano fra loro. Un attore può essere tracciabile entro un certo “ecosistema”, ma non lungo l’intera filiera globale. Implementare tracciabilità digitale, audit e certificazioni è oneroso per cooperative di minatori o piccole fonderie; senza supporto finanziario e tecnico, rischiano di restarne escluse. Anche dove esistono certificazioni, alcuni casi mostrano che documenti possono essere falsificati o controlli fatti in modo superficiale. La tracciabilità diventa così più narrativa che sostanziale.

In sostanza: oggi possiamo garantire una buona tracciabilità per alcune filiere chiuse e controllate, ma parlare di tracciabilità completa dell’oro su scala planetaria sarebbe, per ora, un’esagerazione.

© RIPRODUZIONE RISERVATA