Il potere di scioglimento rappresenta il più affascinante e doloroso anello, l’ultimo, lungo la catena che indissolubilmente lega il sovrano al parlamento in una monarchia costituzionale. Più volte nel corso della storia questo potere è fiorito – in ordinamenti giuridici diversi e distanti – in forme di governo più o meno evolute, legittimandosi sempre quale un olio morbidissimo, di cui talora i meccanismi istituzionali vengono cosparsi quando il substrato storico o politico ne provoca l’irrigidimento.
Irrigidimento è una parola scomoda: affermare che un sistema è rigido, è diverso dal dire che lo stesso si è irrigidito. I due concetti non sono affatto sovrapponibili. L’uno comporta una scelta aperta e franca della teoria kelseniana, nella sua affascinante geometria. Dire che un sistema è rigido significa che quel sistema pone la norma al centro, e ci si fa avvolgere : tutto ciò che è nella norma, corrisponde ad una fattispecie già preordinata al bene. Ciò che è fuori dal cerchio, viene tagliato. I vari cerchi si pongono in un rapporto gerarchico l’uno con l’altro : se il cerchio inferiore permette il vivificarsi di una fattispecie, proibita dal superiore, non solo quella fattispecie, ma anche il cerchio di quel medesimo livello, viene espulso. Chi legittima il primo cerchio (cosiddetta “groundnorm“)? Nessuno : è una auto-legittimazione, una fiction iuris che rende la geometria possibile. Essa non è una norma posta, ma presupposta.
Il termine irrigidimento trascina in sé un connotato negativo, di disprezzo : significa che quel sistema fa della rigidità il perno della democrazia. Significa che se quel sistema non fosse rigido, cadrebbe. Significa in altre parole, che se la rigidità non fosse in una curva crescente, tesa sempre più alto, l’equilibrio democratico sarebbe in rischio. A differenza del sistema rigido, un sistema irrigidito non nasce sempre ex se come un sistema normativista, ben potendosi l’irrigidimento ancorare a qualsiasi fonte del diritto.
Il nostro è un sistema che nasce rigido e si irrigidisce sempre più. Non potrebbe essere altrimenti. La Repubblica Italiana è la coda di un disperato desiderio di rigidità normativa. Ma in un passato non troppo remoto, questa rigidità non ci apparteneva. Lo spirito degli uomini risorgimentali batteva invece alla ricerca di un temperamento fra poteri, che fosse propedeutico a garantire una continua progressione : in sintesi la rigidità avrebbe portato al risultato opposto a quello prefissato. Avrebbe cristallizzato i poteri reali, consumando sempre più quelli parlamentari, e impedito di fatto il vivificarsi dell’efficacia sperata. Nodo nevralgico è il Proclama di Moncalieri del 20 novembre 1849, quale atto centrale nella progressiva definizione del ruolo del re nella dialettica istituzionale. Esso costituisce una delle pagine più affascinanti dell’anello che lega le varie forme di potere in una sistema di monarchia costituzionale.
Il suo studio si declina lungo tre diverse direttive : storica, giuridica e compartiva. Storicamente, esso può essere rappresentato come un tentativo disperato e costretto, il secondo, cui il sovrano ricorse in un intervallo temporale limitatissimo, compreso fra l’estate e l’inverno del 1849.
Il 3 luglio del medesimo anno, il re emanò un primo Proclama di Moncalieri, il quale contemplava lo scioglimento della Camera e la conseguente indizione di nuove consultazioni elettorali. Tale determinazione fu motivata dalla manifesta opposizione alla ratifica di un trattato di pace volto a porre termine al primo conflitto d’indipendenza.
Successivamente, il 6 agosto 1849, Vittorio Emanuele II sottoscrisse la Pace di Milano, operazione avvenuta in assenza di una preventiva approvazione parlamentare, contrariamente a quanto disposto dall’art 5 dello Statuto in caso di trattati internazionali implicanti oneri finanziari per lo Stato (nel caso de quo, settantacinque milioni di franchi).
Nondimeno, questa non pose fine agli squilibri interni.
Certamente il desiderio di conquista si ritrovava sconfitto, e gli animi intellettuali e popolari non mancarono di manifestare il proprio scontento. Questa tragica ondata sgorgava primariamente dalle aule parlamentari, a cui quella Pace non era piaciuta. Ci si lamentò di tutto, e quando ci si rese conto che non molto era rimasto per lamentarsi, si polemizzò circa l’assenza di misure a tutela dei Lombardo-Veneti emigrati in Piemonte (fuorché un generale indulto come atto di spontanea volontà dell’imperatore) .
Le nuove elezioni avevano lasciato immutati i preesistenti assetti, così nell’autunno 1849, quando il re si avvide che l’ostilità della Camera non sarebbe stata soggetta a migliorie, la sciolse nuovamente ed indisse nuove elezioni.
Nel Proclama del 20 Novembre 1849, il re asserì – non senza l’aiuto del genio del d’Azeglio – con una velata minaccia :<<Se gli elettori mi negano il loro consenso, non su di me ricadrà ormai la responsabilità del futuro, e né disordini che potessero avvenire, non avranno a dolersi di me, ma avranno a dolersi di loro>>. La stessa necessita di essere letta quale strumento atto al mantenimento dell’assetto istituzionale – non essendo nelle intenzioni del re dunque la revoca dello Statuto – e alla permeabilità degli equilibri parlamentari dinanzi alle esigenze politiche e militari del tempo.
Giuridicamente, esso non costituisce un atto anti-costituzionale, in quanto permea l’ordinamento, ora (art. 88 Costituzione) come allora (art. 9 Statuto Albertino), la previsione di un potere di scioglimento proprio del capo dello stato (art. 5 Statuto Albertino, art. 87 Costituzione).
Le differenze fra l’antico e l’odierno istituto sono determinate dalla fonte giuridica e dalla fattispecie che legittima il ricorso a suddetto potere (sarebbe impensabile oggi lo scioglimento del parlamento da parte del Presidente della Repubblica perché questo non segue le sue politiche, ma regole diverse vigevano in quel lontano 1849 nel Regno di Sardegna : l’Unità era ancora un faro lontano, la monarchia costituzionale sbocciava giovane, vigorosa, ma inesperta. Il re esercitava un ruolo politico, e condivideva con il parlamento la sovranità, che oggi invece appartiene al popolo – art. 1 Costituzione – e dunque al Parlamento). Si noti che una comparazione prevede un confronto fra termini differenti, e dunque differisce da uguaglianza, che è invece il rapporto che unisce termini uguali.
Il Proclama di Moncalieri deve essere letto dunque in chiave comparativa. Il Proclama segna infine l’acme della dinamicità del ruolo del sovrano, inteso come figura attiva e non passiva nell’ordinamento costituzionale. Le sue radici affondano nel passato – i fondamenti teorici e filosofici del rapporto re-popolo, il passaggio dallo Stato assoluto allo Stato di diritto – si ricongiungono nel presente – contesto storico-istituzionale in cui il Proclama viene dichiarato – e migrano verso il futuro, ovvero l’oggi, per osservare il mutare del ruolo del capo dello stato, e il connesso potere di sciogliere le camere, con somiglianze (Francia, Inghilterra, Germania, Russia) e differenze (Stati Uniti e Cina) negli altri ordinamenti giuridici nazionali.