L’Italia è un Paese di territori eterogenei, segnati da profonde differenze culturali, geografiche e amministrative. Le grandi città hanno catalizzato, soprattutto negli ultimi sessant’anni, flussi consistenti di lavoratori e studenti provenienti dalle province più interne. Questo processo ha prodotto un progressivo impoverimento demografico e funzionale delle aree periferiche, con la riduzione dei servizi di welfare e delle opportunità occupazionali. Un circolo vizioso che alimenta lo spopolamento: meno residenti significa meno servizi e meno lavoro, il che a sua volta genera ulteriore emigrazione.
Le cifre rendono evidente la portata del fenomeno. Secondo il Ministero dell’Università e della Ricerca, uno studente universitario su quattro è fuorisede. Le cosiddette “Aree Interne” – vale a dire quei comuni situati a oltre 30 minuti dal centro urbano più vicino – coprono circa il 60% della superficie nazionale e ospitano 13,3 milioni di abitanti, pari al 23% della popolazione totale¹. Si tratta di una risorsa ancora largamente sottoutilizzata, che oggi confluisce in gran parte verso i poli urbani o resta inattiva.
Sarebbe forse utopia volere un futuro in cui la produttività di tutte le aree interne unite raggiunga o superi quella delle città? In cui tutti gli abitanti della provincia possano trovare lavoro stabile vicino casa? In cui i servizi presenti e la qualità della vita invoglino addirittura gli abitanti delle città a spostarsi in periferia? Probabilmente sì, ma il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne (PSNAI) si pone come obiettivo rendere quest’utopia quanto più concreta possibile.
Il PSNAI è un documento redatto dal Dipartimento per le Politiche di Coesione e per il Sud della Presidenza del Consiglio dei ministri, in collaborazione con CNEL e CENSIS, approvato il 31 marzo 2025. Sebbene sia stato discusso nel silenzio generale della stampa, questo documento è fondamentale per la ripartizione dei fondi nazionali e di coesione europei per i prossimi due anni e interessa 3.834 comuni su tutto il territorio italiano, quasi la metà del totale2, raggruppate in 128 aree3.
Il Piano propone di agire su quattro macroaree di investimento: i servizi pubblici come sanità, istruzione e trasporti pubblici, la digitalizzazione delle aree periferiche per facilitare lavoro e istruzione online, il sostegno alle economie locali per aumentarne la concorrenzialità e infine la transizione ecologica e lo sviluppo sostenibile3. Questi investimenti sono finalizzati principalmente al contenimento del calo demografico, già prospettato dallo stesso CENSIS come irreversibile – in numeri, la proiezione più realista del declino demografico vede una perdita di oltre 13 milioni di abitanti entro il 2080 (più di 1/5 della popolazione attuale)4.
Ma quante risorse, nel complesso, sono disponibili? Tra il 2013 e il 2017 le risorse nazionali messe a disposizione per la Strategia Nazionale per le Aree Interne risultano pari a 281,2 milioni di euro, a cui si aggiungono ulteriori 310 milioni di euro tra il 2019 e il 2020. A questi, bisogna aggiungere 359 milioni di euro in fondi complementari assegnati direttamente ai comuni e 526 milioni stanziati tra il 2020 e il 2021 nell’ambito del Fondo di Sostegno ai Comuni, già esistente. Per concludere, sono stati stanziati appositamente per la Strategia Nazionale per le Aree Interne 2021-2027 600 milioni di euro, di cui 100 milioni da fondi PNRR per il potenziamento delle strutture sanitarie di prossimità (gli altri 500 sono stati stralciati dal PNRR). Il totale ammonta a ben 2,076 miliardi di euro circa5.
E nel concreto, a chi compete applicare il Piano e fare in modo che ogni intervento realizzato possa essere valorizzato al meglio per la comunità? La strada è già parzialmente tracciata nel capitolo 6 del documento: “In questo senso un ruolo determinante è necessariamente affidato ai Comuni e alla loro capacità di attivare attorno al Piano soggetti quali il mondo del terzo settore, le forze sociali ed economiche, le fondazioni bancarie ed in generale tutte le reti associative, comunitarie, professionali esistenti ed operanti nel rispetto ambito territoriale”6.
Oltre a ciò, nell’ultima parte sono stabilite alcune linee guida per la realizzazione delle opere strategiche nei servizi essenziali: in particolare, in ambito scolastico potenziare i percorsi professionalizzanti e imprenditoriali oltre alle attività extracurricolari (a discapito dei licei?), in ambito sanitario migliorare i servizi di telemedicina, la rete di soccorso d’emergenza ed assumere più medici di base per il territorio e per la mobilità efficientare il trasporto pubblico locale, spesso molto scoordinato e investire in alcune importanti infrastrutture strategiche, manutenendole o costruendone di nuove7.
La chiave del successo degli obiettivi qui posti è però rappresentata dall’efficienza dell’apparato burocratico. Ad una lettura attenta del documento si evince come sia stato creato ex novo un sistema di governance appositamente per l’applicazione del Piano: a partire dalla Cabina di Regia, organo interno al Consiglio dei ministri, a cui sottostanno il Comitato Tecnico Aree Interne e l’Autorità Regionale Responsabile, che a sua volta segue la regione competente nella fase attuativa, senza poi considerare tutte le consulenze e i pareri di cui si ha necessità per la definizione delle strategie locali, fra CNEL, CENSIS, CIPE, CIPESS e Sovrintendenze8. Tutto ciò sarà davvero d’aiuto oppure no?
Di certo non sarebbe una buona idea sobbarcare interamente ai comuni la responsabilità dell’attuazione del piano, considerando le croniche carenze tecniche e di personale che uffici comunali e segreterie si trovano a fronteggiare; colpisce in tal senso leggere che, per l’assistenza tecnica alla Pubblica Amministrazione, l’investimento per ogni area è limitato al 5% delle risorse disponibili, decisamente troppo poco. Neanche lo sarebbe accentrare le decisioni alla sola cabina di regia, distaccata dalle esigenze concrete dei territori. Si può a questo punto sfruttare di più gli apparati regionali, già rodati nella gestione dei Fondi di Coesione degli anni precedenti.
Insomma, il PSNAI si propone quale strumento risolutivo di tutti i mali cronici delle zone più isolate del Paese; è un documento dai toni roboanti, che vuole intervenire in alcuni ambiti senza dubbio cruciali, ricalcando gli obiettivi europei per lo Sviluppo Regionale che dal 2014 a questa parte hanno garantito un po’ di respiro dopo l’austerità imposta a partire dal 2011. Tuttavia, le problematiche relative all’applicazione nel concreto continueranno a sussistere se non si prevedono ulteriori investimenti a favore delle amministrazioni locali: quest’ultimo aspetto è fondamentale non solo per l’incremento dell’efficienza della PA sul territorio, ma anche per incentivare l’iniziativa imprenditoriale e il favorendo la competitività delle offerte di lavoro e permettendo finalmente ai giovani di poter pensare davvero a un futuro di stabilità.