Quando il profitto uccide la passione. Ma poi quale profitto?


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C’è una verità amara nella nostra società: fin da giovani ci viene insegnato che per essere accettati e riconosciuti come vincenti dobbiamo essere produttivi, monetizzare le nostre capacità, e dimostrare la nostra utilità attraverso il profitto. Ma a quale costo?

In questo contesto, la passione, quell’energia pura e incontaminata che ci spinge a inseguire ciò che ci fa sentire vivi, rischia di essere soffocata dalle pressioni della società che ci vuole sempre orientati al risultato economico. Quando la passione si scontra con l’imperativo del profitto, spesso il desiderio genuino di fare qualcosa perché ci emoziona o ci ispira viene subordinato alla necessità di monetizzarlo.

L’anno scorso in Italia i laureati sono stati 350.000, di questi ben 22.204 sono dottori in Economia, 16.800 sono usciti da giurisprudenza, seguiti per numero da Ingegneria e professioni sanitarie. Che, casualmente, sono anche le facoltà “piu richieste dal mercato del lavoro”.

Possibile che nessuno voglia più fare filosofia, lettere o belle arti?

O è forse più probabile che molti decidano di sacrificare quello che amano in nome di una vita dignitosa?

La scelta del lavoro è forse una delle decisioni più importanti della nostra vita, poiché influenza la qualità di questa radicalmente: lavoriamo in media 90.000 ore, ovvero dieci anni pieni della nostra vita. Ma questi sono dati vuoti, forse è più efficace spiegarlo così: finita l’università, lavoreremo quasi ogni giorno, per quasi tutto il giorno.

Il lavoro non dovrebbe essere il centro della nostra vita, ma lo è, quindi sceglierlo con cura è a dir poco necessario.

Però in questa panoramica io, da adolescente, non so come muovermi. Che fare? Perdente ma felice, o vincente ma infelice?

Ma poi, alla fine, c’è veramente un vincente? Perché a guardare la situazione delle retribuzioni in Italia non si direbbe: secondo i dati Istat la retribuzione media annua lorda dei laureati ammonta a 27.000 euro, circa 1.600 euro al mese (quasi 4.000 in meno rispetto alla media europea). Come fa una persona, dopo aver studiato per anni, a vivere con questo stipendio, che pure viene definito buono?

Prendiamo come esempio il medico: lo studio dura dieci anni, e lo stipendio nei primi incarichi si aggira intorno ai 2.000 euro. È uno degli stipendi migliori che si possano percepire, ma nel 2024 a trent’anni non basta per farti una famiglia, una casa, darti una stabilità. Non è surreale? Non è profondamente ingiusto? Vale la

pena scommettere se il bingo è la sopravvivenza?

Forse, oltre a pensare a cosa fare da “grandi”, dovremmo pensare anche a come cambiare questa situazione di Aut-Aut in cui sia questo che quello portano ad una vittoria, ma di certo non si tratta della nostra.

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