Intervista a: Claudia Caggianno, TEDxCarcerediPotenza
«Alla fine, l’impatto è la traccia che resta quando finisce tutto il resto.»
Come si misura l’impatto sociale? Dalle conseguenze positive di un’azione, di un’attività, di un progetto che si è posto un obiettivo di cambiamento.
A Potenza, il 20 marzo 2025, le sbarre della Casa Circondariale “A. Santoro” si sono aperte e trasformate – per qualche ora – in un limbo e una soglia. È qui che si è tenuto TEDxCarcerediPotenza, il primo TEDx mai realizzato in un luogo non vocato all’educazione, ma in un carcere italiano.In questo luogo, su un palco un palco condiviso con tre persone detenute, dieci voci si sono incontrate per parlare di un tema: “Riscrivere il Tempo”, una riflessione per vite che si sono spezzate e che vogliono essere riparate, una riflessione per vite che devono imparare a rimanere integre. Un limbo appunto, un viaggio “nell’aldilà” per capire e da comprendere.
Il progetto di un format internazionale è entrato dove sembrava impossibile; istituzioni e media ne hanno riconosciuto la portata; ha aperto un varco sul senso della pena e sulla possibilità di ricominciare.Un evento inedito nel Paese che ha fatto parlare istituzioni e media, e che oggi chiede di tornare d’attualità per ciò che ha lasciato dietro di sé: una rete di relazioni e una domanda semplice quanto radicale su cosa significhi impatto sociale quando lo si misura con gli sguardi, prima che con i numeri.
“Tempo” non è mai stato uno slogan, ma è diventata una prospettiva.. Sul palco, dieci speaker hanno restituito il peso e la forma dell’attesa dietro le sbarre, mettendo in dialogo il tempo di chi sta dentro e il tempo di chi sta fuori. Due persone detenute hanno raccontato cosa significa far scorrere i minuti quando gli affetti sono lontani ed il silenzio denso in sala è stato più eloquente di qualsiasi cifra.
A tre mesi dall’evento, l’esperienza è stata presentata in Senato, nella Sala “Caduti di Nassirya”, in un confronto pubblico dedicato a risultati e impatto sociale, culturale ed educativo. Anche questa volta un passaggio non rituale: portare in un’aula del Senato della Repubblica, in un luogo simbolico della democrazia, il racconto di un format culturale come il TEDX, “trapiantato” in un istituto penitenziario significa mettere al centro la funzione civile della cultura.
Per capire cosa è successo davvero, abbiamo raccolto la voce di Claudia Caggiano, una delle volontarie che hanno contribuito a rendere possibile l’esperimento.
«La spinta più forte è stata la voglia di essere davvero attiva nella mia comunità… Portare un TEDx in carcere mi è sembrato un gesto potente: costruire un ponte dove di solito c’è un muro», racconta la Caggiano, che non nasconde di essersi sentita diversa fin dalla prima entrata nell’ istituto penitenziario : «All’inizio avevo curiosità, timore e rispetto. Poi ho iniziato a vedere le persone, non le sbarre. In quel momento ho capito che non stavo attraversando solo un confine fisico, ma una realtà umana complessa.»
Sul palco, il momento di verità: «Quando i detenuti sono saliti a parlare, la distanza tra “noi” e “loro” è scomparsa. Le parole non erano perfette, ma erano vere.»
Non è “solo un evento”. L’impatto scorre su due livelli. Il primo è tangibile: dall’attenzione concreta ai bisogni (come la dotazione di assorbenti per le donne detenute) alla continuità di relazioni nate dietro le quinte e protrattesi nei mesi successivi. «Può sembrare un gesto semplice, ma nasce da una consapevolezza nuova e da una rete che si è creata grazie al progetto», dice Caggiano.
Il secondo livello è meno materiale ma non meno reale ed è fatto dagli sguardi di chi era presente, dalle narrazioni che si incrinano per pudore o timidezza, dai silenzi consapevoli e accoglienti di chi comprende. E’il livello di una trama sottile di, una comunità che si riconosce tale al di là dei ruoli. « Dal lato di chi stava dentro, molti si sono sentiti parte di qualcosa che dava valore alla loro voce; chi stava fuori, ha ascoltato e ha iniziato a guardare quel mondo con occhi diversi», aggiunge Claudia Caggiano. «Alla fine, l’impatto è la traccia che resta quando finisce tutto il resto.»
Portare un format globale in un luogo iper-regolato ha richiesto autorizzazioni, procedure, tempi lunghi. Ma la prova più grande non è stata burocratica, è stata emotiva, è stato l’incontro tra esseri umani: «Non siamo stati perfetti, e forse va bene così: abbiamo imparato che anche gli errori fanno parte di un processo umano, purché ogni scelta sia guidata da rispetto e consapevolezza», racconta Caggiano.
Dietro a questa iniziativa c’è una volontà generazionale, un dato che spiega il tono e la sostanza dell’esperimento, quella di non parlare di cambiamento ma di agire, di esserci anche con tutti i rischi e le imperfezioni. In questo senso, il carcere diventa un luogo in cui si sconta la condanna ma in cui si incontra un modello di comunità, un “luogo-scuola”, in cui l’impatto sociale sia nella presenza e nella continuità con voci dall’esterno. Che cosa resta, sette mesi dopo questo incontro ? Resta un precedente importante, una falla nel sistema di detenzione che può essere sorgente, un recupero emotivo di persone che, pur riconoscendo la detenzione per aver commesso un reato, sanno che fuori c’è una comunità di persone ancora accoglienti, ancora in grado di ascoltare.
Resta anche una frase chiave: «La libertà non è solo uno spazio fisico, ma una condizione mentale e collettiva. Anche dentro un luogo che la nega, si può creare libertà: di pensare, raccontare, ascoltare.»
Cosa fare adesso? Seguire il flusso con una proposta concreta per il futuro: portare l’idea in altri “luoghi invisibili” – ospedali, comunità terapeutiche, ospizi – luoghi dove il tempo è sospeso tra paura e rinascita, dove la fragilità umana può diventare forza. Perché se l’impatto sociale è “la traccia che resta”, allora la sfida è far sì che quella traccia si faccia disegno e struttura, diventi davvero un ponte.
