Se l’8 Marzo fa ancora scalpore, il problema non sono le donne


Perché finché se ne parlerà così, se ne parlerà sempre nel modo sbagliato

Ogni anno, quando l’8 marzo si avvicina, il copione è sempre lo stesso. C’è chi lo celebra come un’occasione necessaria per riflettere sui diritti conquistati e sulle battaglie ancora aperte, e chi, al contrario, ne mette in dubbio l’utilità, sostenendo che non ce ne sia più bisogno. Poi ci sono quelli a cui la Giornata Internazionale della Donna dà proprio fastidio: chi la ridicolizza, chi la svuota di significato trasformandola in un’operazione commerciale, chi cerca di relegarla a un rito formale, innocuo e privo di qualsiasi forza politica.

Se questa giornata suscita così tante resistenze, forse è perché mette a nudo qualcosa di più profondo: la narrazione stereotipata, limitante e spesso contraddittoria con cui, per il resto dell’anno, si descrive la figura femminile. Forse, allora, il vero problema non è l’8 marzo, ma il modo in cui si continua a raccontare le donne.

Per la società e i media, l’idea è che le donne, solo per il fatto di essere tali, siano automaticamente predisposte a determinate azioni ed emozioni. È come se il semplice fatto di potersi definire donna, ci renda automaticamente capaci di fare la cosa giusta, al momento giusto e con i modi giusti.

Una definizione apparentemente celebrativa ma che restringe le possibilità di scelta e influenza profondamente le traiettorie personali e professionali delle donne.

Sono in molte a rivendicare con orgoglio tutte le qualità considerate “normali”: l’essere una bella donna, una brava donna di casa, moglie e mamma. Oggi il discorso si è evoluto, ma non necessariamente emancipato dai condizionamenti culturali.

Da bambine ci hanno regalato trucchi giocattolo, a scuola abbiamo imparato che essere la più carina garantiva uno status, ai colloqui di lavoro ci è stata richiesta la “bella presenza”. E ancora oggi, ci viene detto che se una donna over 40 soffre di depressione, è perché non riceve più complimenti maschili. Abbiamo interiorizzato l’idea che a decidere se siamo attraenti, e quindi visibili e considerate, siano sempre gli uomini. Per questo ci spaventa l’idea di perdere quello che ci hanno sempre detto essere il nostro punto di forza in società. Se spendiamo tempo, soldi ed energie per aderire a uno standard estetico, non è perché siamo frivole, ma perché siamo cresciute in una società che ci ha insegnato a misurare il nostro valore attraverso lo sguardo altrui.

Siamo cresciute con l’idea che il matrimonio sia il traguardo più importante per una donna, che senza il ruolo di moglie o madre la nostra identità resti incompleta. Allo stesso tempo, una donna che fa carriera viene considerata “incredibile” non tanto per il suo successo, ma per la sua capacità di conciliare lavoro e famiglia, come se il suo valore fosse misurabile solo attraverso un’adesione ai ruoli tradizionali. 

Quando una donna ha successo, non di rado viene sottolineato come sia riuscita a emergere “in un mondo di uomini”, sembrando quasi un confronto, una conferma per sottrazione. Il suo talento viene spesso oscurato da accuse di favoritismi e insinuazioni di strategie di potere, dimostrando come le donne siano il primo bersaglio quando qualcosa non convince e adottando un meccanismo per cui i loro successi vengono sistematicamente sminuiti o attribuiti agli uomini.

Questo fenomeno ha un nome: si chiama Effetto Matilda. Il termine è stato coniato dalla storica della scienza Margaret Rossiter per descrivere come, nel corso della storia, molte scienziate siano state ignorate o abbiano visto i loro meriti riconosciuti ai colleghi maschi. Prendiamo Nettie Stevens, la scienziata che identificò il ruolo del cromosoma Y nella determinazione del sesso. Un’intuizione rivoluzionaria, ma il merito finì a Edmund Wilson, il collega maschio. A complicare il quadro c’era anche lo stato civile delle scienziate: le donne sposate vedevano spesso il loro contributo dissolversi nel lavoro dei mariti, mentre le scienziate single, autonome ma isolate, non avevano accesso a reti accademiche solide.

Ma il punto è che l’Effetto Matilda non riguarda solo la scienza e il passato: è ovunque e continua a manifestarsi anche oggi negli schemi che soffocano l’individualità femminile. E siamo ancora lontani dallo strappare quelle pagine e lasciare che ognuna scelga il proprio finale.

Il fattore scatenante? Un sistema culturale che insegna alle donne a mettersi da parte e agli uomini a non perdere di vista il modello di virilità “tradizionale”. Il sociologo Pierre Bourdieu, nel saggio Il dominio maschile, spiega proprio come la società abbia interiorizzato questo squilibrio di potere, facendolo apparire naturale. Sono idee pericolose che finiscono per giustificare la violenza di genere e legittimare il dominio maschile. 

Uomini che devono apparire forti, dominanti e incapaci di mostrare emozioni diverse dalla rabbia sono alla base di quella che viene definita “mascolinità tossica”. Questo modello insegna agli uomini che il potere e il controllo sono parte della loro identità e che perdere tale controllo è un segno di debolezza. La conseguenza di questa mentalità è visibile nei dati sulla violenza di genere, è visibile nel fatto che, in 117 anni, dal 1908 a oggi, le donne abbiano sì conquistato traguardi impensabili per le generazioni che le hanno precedute ma continuino a pagare un caro prezzo, e si sentano rifilare la solita retorica e i soliti stereotipi della bella e brava ragazza.

Sulla carta, la parità è un principio acquisito. Nella realtà, invece, è tutta un’altra storia. Il rispetto non è scontato, il talento non sempre viene riconosciuto e i diritti conquistati restano fragili, costantemente messi in discussione. Il problema non è la legge, ma la mentalità: quella che ancora oggi relega le donne a ruoli prestabiliti, che le premia solo quando non disturbano l’ordine delle cose, che le condanna quando scelgono di essere libere.

Ed è per questo che l’8 marzo non è un omaggio, né un gesto di cortesia; non serve a celebrare il valore delle donne, né a pareggiare i conti con secoli di esclusione, discriminazione e violenza. Perché finché una donna dovrà dimostrare il doppio per ottenere la metà, finché il suo talento sarà messo in discussione più del suo aspetto, finché il suo spazio in società sarà concesso e non garantito, finché i femminicidi saranno raccontati come “raptus di gelosia” invece che come il risultato di una cultura patriarcale che considera le donne proprietà degli uomini, vorrà dire che la vera emergenza non è l’8 marzo, ma tutto ciò che continua a renderlo necessario.

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