Se Michelangelo avesse avuto Instagram, il David sarebbe stato censurato? 


david di michelangelo

Quando un algoritmo decide cosa sia arte e cosa sia censura, il confine tra tutela della community e  compressione della libertà espressiva diventa sempre più sottile. È ciò che è accaduto allo scultore  Jago, tra i nomi di punta più noti della scena artistica contemporanea, che nei giorni scorsi ha visto i  propri contenuti oscurati da Meta. Foto e video della sua ultima opera, La David, una rivisitazione  femminile e contemporanea del capolavoro michelangiolesco, sono stati rimossi o limitati dalla  piattaforma perché contenenti “nudità”. 

Ma non basta: l’intero profilo dell’artista risulta oggi invisibile a chi non fosse già suo follower,  riducendo notevolmente la sua visibilità online. Una misura che Jago definisce “incomprensibile”,  come riportato all’ANSA: «Sarà la decima volta che capita una cosa simile. Le linee guida parlano  chiaro e consentono i nudi artistici. Non riesco a comprendere come sia possibile, considerando che  la decisione finale spetta a un essere umano e non all’intelligenza artificiale, che si limita a  segnalare». 

Arte classica vs algoritmi 

Il paradosso è esorbitante: i seni scolpiti nella pietra da Michelangelo, simbolo universale del  Rinascimento, sono celebrati in musei e manuali scolastici nel mondo intero. Nella declinazione  contemporanea di Jago, però, diventano contenuti “sensibili” agli occhi dei sistemi automatizzati di  Meta. Non è la prima volta che accade: casi simili hanno riguardato in passato non solo l’artista  ciociaro, ma anche il Museo dell’Accademia di Firenze, che nel 2021 si vide rimuovere immagini del  David originale, una scelta discutibile che fa però riflettere sull’evoluzione della tecnologia e del  controllo, sempre più stringente, dell’immagine. Nel 2023 accadde al Museo di Capodimonte con il  “Cristo velato” di Giuseppe Sanmartino, mentre in Francia la stessa sorte toccò a fotografie di quadri  impressionisti. In tutti questi casi, l’arte classica e contemporanea è stata trattata al pari di contenuti  pornografici. La questione non riguarda soltanto un malfunzionamento tecnico, ma il nodo cruciale  di come gli algoritmi, e le linee guida delle Big Tech, definiscano i confini della cultura visibile. È  un nuovo potere normativo, esercitato non da parlamenti o corti, ma da piattaforme private capaci di  decidere cosa entra e cosa esce dall’immaginario collettivo globale. Dietro queste scelte ci sono le  Community Guidelines di Meta, che vietano “nudità sessualmente esplicite”, con alcune eccezioni  per “contenuti artistici o educativi”. Eccezioni che, evidentemente, non sempre superano il filtro  dell’intelligenza artificiale o la valutazione finale dei moderatori. 

Una sfida globale 

Il caso Jago apre una riflessione più ampia: chi decide cosa sia arte e cosa no nel tempo dei social  network? Se le piattaforme digitali sono oggi le principali vetrine di diffusione culturale, l’algoritmo  rischia di diventare un nuovo, potentissimo censore. E questo non riguarda solo gli artisti: riguarda il  rapporto tra creatività e regole imposte da aziende private che operano, di fatto, come arbitri globali  della libertà di espressione. 

Jago non si ferma. Il prossimo 3 settembre l’opera “censurata” sarà esposta a Taormina, con ingresso  gratuito, in un evento che lo stesso artista ha annunciato come occasione di confronto sul tema della  censura artistica ai tempi dei social. Un’occasione per poter trasmettere, a tutti coloro che ammirano 

l’arte e ne studiano la capacità di catturare lo sguardo umano, riempiendolo di curiosità, di poter  ammirare “senza filtri e limitazioni”, l’espressione pura di un “Rinascimento invecchiato”. 

Arte, libertà e nuove generazioni 

Per le nuove generazioni, cresciute in un ecosistema digitale in cui la visibilità coincide con  l’esistenza stessa, la questione va oltre il singolo episodio. Si tratta di ridefinire il rapporto tra arte,  tecnologia e libertà. E forse, come insegna questa vicenda, di chiedersi se un algoritmo possa davvero  sostituirsi al giudizio critico, storico e culturale che da sempre accompagna l’arte. Il caso Jago  diventa, in questo modo, un manifesto involontario: un richiamo a non accettare passivamente che la  nostra capacità di distinguere bellezza da oscenità, arte da pornografia, sia ridotta a un calcolo binario. 

In un mondo che ha bisogno di nuove idee, di visioni e di creatività sempre più coinvolgenti, il  traguardo non è soltanto esporre un’opera, ma difendere il diritto che questa abbia cittadinanza nello  spazio pubblico digitale. Perché senza questa facoltà, l’arte non muore, ma rischiamo di diventare  noi, poco a poco, ciechi davanti ad essa.

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