Start-up Made In Italy: Michela Andreolli e l’innovazione che trasforma il futuro del lavoro


In un’epoca in cui i cambiamenti corrono più veloci che mai, anche il mondo del lavoro sta vivendo una trasformazione significativa. Uno dei principali motori di questa rivoluzione è il fenomeno delle start-up. Negli ultimi anni, abbiamo assistito a una crescita esponenziale sia nel numero di tali imprese innovative sia negli investimenti ad esse destinati. I numeri parlano chiaro: al 2022, le start-up innovative in Italia hanno raggiunto le 14.000 unità, rispetto alle sole 1.500 del 2013. Sul fronte degli investimenti in venture capital, si è passati da 152 milioni di euro nel 2013 a 1,1 miliardi nel 2023.

Di fronte a una tendenza ormai consolidata, è fondamentale comprendere cosa significhi realmente fare start-up in Italia e sfatare alcuni falsi miti che riguardano tale mondo. Ne abbiamo parlato con Michela Andreolli, fondatrice di Arke, una start-up tech che mira a rivoluzionare il modo di fare impresa.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, l’aumento delle start-up in Italia non può essere attribuito semplicemente a una crescente insoddisfazione verso le opportunità offerte dal mercato del lavoro tradizionale. Questo ragionamento, infatti, nasce da una confusione tra il concetto di start-up e quello di impresa tradizionale. Una start-up non si limita a replicare un modello di business già esistente, ma si distingue per la sua capacità di innovare e per il suo potenziale di crescita scalabile. Di conseguenza, chi decide di mettersi in proprio riproducendo ciò che faceva come dipendente, spinto solo dall’insoddisfazione, non rientra nella definizione di startupper. Per questo motivo, il legame diretto tra malcontento lavorativo e crescita delle start-up non risulta fondato.

Come spiegare, quindi, questa crescita? “È un fenomeno culturale”, afferma Michela. La CEO di Arke è convinta che anche in Italia stia emergendo una mentalità più aperta verso il mondo delle start-up, grazie alla crescente consapevolezza che è possibile avviare un’attività con il supporto di capitali esterni. Inoltre, esempi virtuosi e storie di successo fungono da incentivo per chi si avvicina a questo mondo.

Quante volte ci siamo sentiti dire che fare start-up in Italia è quasi impossibile? Burocrazia, normative poco favorevoli, difficoltà nell’accesso ai finanziamenti: questi sono solo alcuni dei problemi sistemici spesso citati. Ma è davvero così? Oppure è stata la paura del cambiamento a frenare per anni una mentalità che altrove era già proiettata verso l’innovazione?

Michela, forte della sua esperienza in un fondo d’investimento americano, osserva una differenza sostanziale tra l’approccio italiano e quello presente oltreoceano: negli Stati Uniti si punta a massimizzare il ritorno, mentre in Italia si cerca di minimizzare il rischio.

Sebbene gli investitori italiani siano meno inclini al rischio, Michela sottolinea che esiste anche un problema lato start-up. “In Italia ci sono più soldi da investire che start-up in grado di richiederli correttamente”, spiega. Per questo, è cruciale imparare a fare fundraising nel modo giusto, comprendendo appieno i requisiti richiesti dagli investitori. Tra questi, spicca l’importanza di scegliere un mercato sufficientemente ampio e la capacità di affrontare problemi realmente sentiti.

Capire il problema è la chiave per fondare una start-up di successo. Michela sottolinea l’importanza di porre le domande giuste, captare gli insight e trasformare quello che l’imprenditore dice in qualcosa su cui poter agire. Per questo, nella fase iniziale, Arke ha condotto una vasta operazione di ricerca, intervistando ben 300 aziende per identificare le difficoltà che ostacolavano l’aumento dei loro margini.

Ma perché scegliere l’Italia? Nonostante non avesse mai lavorato nel suo Paese d’origine, Michela lo ritiene il luogo ideale per avviare il suo progetto. “Per fare l’imprenditrice avevo bisogno di un problema da risolvere, e in Italia ce ne sono molti più che altrove”, confida. Tornata a casa, Michela si è posta l’obiettivo di affrontare quelle questioni che un tempo le suscitavano rabbia, ma che ora la motivano a fare la differenza. Con il suo co-founder, Matteo Luigi Ferravante, ha individuato una falla nei sistemi gestionali delle aziende manifatturiere, rimaste indietro nel processo di digitalizzazione.

Grazie alle sue esperienze all’estero, la startupper ribadisce l’importanza di confrontarsi con realtà diverse. Prendendo le distanze dalla narrativa negativa sulla “fuga di cervelli”, evidenzia come proprio il contatto con mercati e mentalità differenti le abbia permesso di apportare un valore aggiunto all’impresa italiana.

Tornando ai dati, è bene rimanere realisti: il 50% delle start-up in Italia non supera i cinque anni di attività3. Quelle che riescono a farlo spesso evolvono in PMI innovative, imprese tradizionali o puntano a un’exit, venendo acquisite o fondendosi con altre aziende. Arke, però, ha scelto sin dall’inizio un percorso che escludesse l’idea di un’exit a breve termine. Il progetto punta a un impatto duraturo e di ampio respiro, con l’obiettivo di mettere la tecnologia al servizio delle imprese. Con entusiasmo e passione, il team mira non solo a supportare il tessuto imprenditoriale italiano, ma anche a espandersi oltre i confini nazionali. Michela, inoltre, vuole contribuire alla filiera della manifattura, aiutando le aziende a riscoprire la soddisfazione nel dedicarsi al proprio mestiere, senza essere appesantite dalle complessità gestionali del caso. Arke risponde a questa esigenza attraverso il suo software, progettato per semplificare e ottimizzare i processi aziendali.

Questa testimonianza offre una prospettiva diretta e ispirante sul fenomeno delle start-up in Italia. Michela, con il suo talento e la sua determinazione, dimostra che innovare è possibile anche nel nostro Paese. E tu? Hai voglia di seguire il suo esempio e fondare la tua start-up?

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