Trent’anni fa, L’assassinio di Yitzhak Rabin


La sera del 4 novembre 1995, Yitzhak Rabin, dopo un comizio per la pace in Piazza dei Re d’Israele a Tel Aviv, usciva dal palco dopo aver pronunciato la frase «abbiamo scelto la pace»; pochi istanti dopo fu colpito da tre proiettili sparati da un estremista israeliano, Yigal Amir. Il gesto spezzò la vita di un leader che aveva messo la sua autorità militare e politica al servizio di un’idea storica, ma che gli costò l’etichetta di traditore agli occhi delle falangi più estreme del sionismo: trattare con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina per cercare una soluzione negoziata al conflitto. 

Nato a Gerusalemme nel 1922, Rabin militò nelle forze paramilitari della comunità ebraica e ricoprì incarichi chiave nell’esercito. Partecipò a operazioni decisive durante la guerra d’indipendenza del 1948, guidando la brigata Harel nelle difficili campagne per mettere in collegamento Gerusalemme con la costa e nel fronte meridionale contro l’Egitto. Negli anni successivi Rabin assunse responsabilità crescenti: fu comandante del Comando Settentrionale e, nel dicembre 1963, fu nominato Capo di Stato Maggiore dell’IDF. In quel ruolo Rabin guidò l’esercito nella Guerra dei Sei Giorni (giugno 1967), quando l’IDF ottenne vittorie lampo su più fronti. 

Nel 1968 lasciò l’esercito per diventare ambasciatore d’Israele a Washington (1968–1973), una posizione dalla quale consolidò i rapporti con l’amministrazione americana e svolse un ruolo chiave nell’acquisizione di sistemi d’arma e nel rafforzamento del «rapporto speciale» bilaterale — un fattore che avrebbe pesato nelle politiche di difesa e nella diplomazia israeliana per decenni. Il percorso di Rabin come uomo di Stato fu segnato da scelte che molti consideravano controintuitive per un generale: la disponibilità a negoziare con interlocutori considerati fino ad allora irriducibili. Si inserì nella leadership del Partito Laburista e salì alla presidenza del governo nel 1974, succedendo a Golda Meir. 

Il suo primo mandato combinò misure di politica interna con scelte di politica estera e di sicurezza: la sua amministrazione fu alla guida durante la firma dell’Accordo di Disimpegno con l’Egitto (il cosiddetto Sinai II, settembre 1975) e si confrontò con la dolorosa ristrutturazione seguita alla guerra del 1973. Sul piano operativo, l’episodio più noto di quel periodo fu l’Operazione Entebbe (luglio 1976), un’azione di forza per liberare gli ostaggi di un aereo dirottato e trattenuti in Uganda. Il bilancio del suo primo esecutivo include scelte che avviarono percorsi negoziali con i vicini arabi. 

Nel 1992 vinse nuovamente le elezioni come leader laburista, presentandosi con un programma che metteva la sicurezza al servizio della pace. Fu in questo secondo mandato che Rabin, insieme al ministro degli Esteri Shimon Peres e dietro il negoziato segreto condotto da delegazioni israeliane e palestinesi in Norvegia, si fece artefice della serie di intese iniziali note come Accordi di Oslo (1993) e del successivo Oslo II (settembre 1995). Gli accordi segnarono il primo riconoscimento reciproco formale tra Israele e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), prevedendo il trasferimento graduale di competenze amministrative a un’autorità palestinese e un processo negoziale a fasi per affrontare le questioni più complesse (confini, rifugiati, Gerusalemme). Per Rabin, più che un atto ideologico, si trattava di una scelta pragmatica: mettere in sicurezza lo Stato stabilizzando i rapporti con una controparte politica organizzata. 

La decisione di negoziare con l’OLP e di accettare frammenti di sovranità palestinese provocò forti reazioni interne in Israele: dalla mobilitazione delle forze di destra alla radicalizzazione di settori religiosi e nazionalisti che vedevano in ogni cessione un tradimento della promessa sionista.

L’impatto dell’assassinio sulla traiettoria del processo di pace fu immediato e profondo. Anche se formalmente gli accordi di Oslo proseguirono, la morte di Rabin tolse alla leadership israeliana uno dei pochi uomini che combinavano credibilità in materia di sicurezza e volontà politica di rinunciare a porzioni di territorio per garantire stabilità. Il vuoto lasciato accelerò il ricomporsi delle forze contrarie al compromesso ridusse di molto la fiducia reciproca. Molti storici e analisti concordano che, senza Rabin, Oslo ha perso il suo pilastro politico più solido proprio nel momento in cui il processo richiedeva pazienza e protezione istituzionale. 

La storia di Rabin resta una fonte ricca per capire come si costruiscono e si difendono negoziati difficili. Osservare oggi quei passaggi con un occhio storico e distaccato aiuta a separare il dato fattuale dalle interpretazioni politiche che essi hanno generato nel tempo. L’esempio ravvicinato delle sue scelte resta un laboratorio di pratiche e dilemmi: come bilanciare deterrenza e fiducia, come tutelare il processo dalle spinte radicali, come costruire istituzioni in grado di tradurre accordi in cambiamenti duraturi. In poche parole, ci insegna quanto la diplomazia sia inseparabile dalla forza militare, dal momento che quest’ultima, da sola, comporta il mancato raggiungimento degli obiettivi da parte di entrambe le fazioni. Ed è ancora più significativo che sia proprio un ex generale ad aver intuito per primo questo precetto, e ad aver detto per primo lui, stratega di guerra, “abbiamo scelto la pace”.

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