Non troppo tempo fa, l’equilibrio tra lavoro e vita privata emergeva come un ideale prezioso rappresentando quel punto di armonia in cui l’individuo si trovava egualmente coinvolto e soddisfatto tanto nella sfera lavorativa, quanto in quella privata.
Con l’avvento del lockdown e della pandemia, l’umanità è stata costretta a una pausa riflessiva senza precedenti. In questo momento di introspezione, molti hanno iniziato a riconsiderare le priorità della propria vita, forse per la prima volta, realizzando quanto fosse necessario per cercare nuovi equilibri, avere una maggiore flessibilità, arrivando addirittura ad attivarsi per cambiare lavoro, a salvaguardia delle nuove priorità.
Il work-life balance è il mantra dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro, ma in Italia sembra un obiettivo ancora lontano. Secondo un recente sondaggio, il 72% dei giovani tra i 18 e i 34 anni è alla ricerca di un impiego che permetta loro di esprimere la propria identità, avere un impatto concreto e, soprattutto, mantenere uno spazio per la vita privata. Salari bassi, scarsa flessibilità e diritti superati frenano la produttività, rendendo difficile creare ambienti che permettano ai giovani di bilanciare lavoro e vita personale. La Generazione Z, in particolare, si trova a fronteggiare un sistema lavorativo rigido e pieno di vincoli. Questi giovani, cresciuti con l’idea che il lavoro debba integrarsi armoniosamente con la vita privata all’insegna della flessibilità, degli stimoli e delle opportunità di crescita, tuttavia, si ritrovano spesso di fronte a offerte di lavoro che non rispondono alle loro esigenze, con contratti precari e salari inadeguati. Le leve precedenti, erano permeate dai concetti di sacrificio e dovere trasmessi dalle famiglie e dalla società stessa. Oggi, invece, i giovani ricevono messaggi contrastanti: da un lato, la famiglia tenta ancora di instillare il valore del sacrificio, pur credendoci meno, avendo vissuto sulla propria pelle il fallimento della retorica meritocratica; dall’altro, la società li spinge al piacere, al consumo e alla realizzazione personale. Questo contesto, dominato dal principio del piacere e dal virtuale, rende difficile applicare i consigli basati sulle esperienze passate, poiché il mondo odierno è radicalmente diverso da quello in cui vivevano i loro genitori.
I giovani si stanno opponendo a un sistema consolidato attraverso il downshifting, il quiet quitting e il rifiuto di salari inadeguati, venendo spesso etichettati come “picky”, “choosy”, viziati e poco propensi alla “gavetta”. Le generazioni precedenti, che ricordano la voglia di fare carriera, non tengono conto delle circostanze attuali. Oggi, nonostante gli sforzi, i giovani non raggiungono gli standard di vita dei loro genitori alla stessa età. Il sistema può e deve cambiare: forse non sono i giovani a rifiutare il lavoro, ma il lavoro a rifiutare chi non decide di sottostare a determinate condizioni o addirittura ricatti.
Un problema nel problema: l’atavica indolenza lavorativa dei giovani
Un’analisi storica degli archivi dei principali quotidiani italiani rivela numerosi articoli che criticano i giovani delle decadi passate, oggi sessantenni, sessantenni, cinquantenni e quarantenni. Queste generazioni, una volta vittime, sembrano ora indossare i panni dei carnefici, criticando e umiliando i giovani di oggi senza considerare fatti inoppugnabili, come ad esempio le condizioni offerte ai giovani che, spesso, travalicano il labile confine dello sfruttamento.
Si legge spesso delle difficoltà delle aziende, grandi, medie e piccole, nel trovare personale, lamentando che i giovani non vogliano lavorare o che cerchino di evitare turni serali e nel weekend, richiedendo condizioni “esose” come compensi chiari, orari di lavoro definiti e giorni di riposo stabiliti. D’ altro canto, emergono di frequente offerte di “lavoro” che ben poco hanno di esso: si cerca personale giovane senza vincoli familiari, con stipendi di 5-6 euro lordi all’ora, stage non retribuiti o con rimborsi spese minimi, se non inesistenti, prove gratuite e contratti inesistenti. In questo contesto, non sorprende che fare carriera non sia una priorità per la Generazione Z, che riscopre, invece, il valore del tempo libero e della qualità della vita, compiendo un atto quasi rivoluzionario in un mondo dominato dallo stacanovismo individualista, dove l’unica cosa che conta è la performance: uscire per ultimi dall’ufficio e dire sempre di sì ai colleghi, ai capi, ai clienti.
Ecco che l’indiscusso trionfo del rendimento cancella progressivamente i piaceri più semplici della vita, oscurando una semplice verità: si lavora per vivere e non si vive per lavorare. E soprattutto il valore di una persona non si misura dal suo rendimento, ma dalla profondità delle sue relazioni umane. Chi pensa il contrario, del lavoro avrà capito tutto, ma della vita ben poco.