Il futuro del lavoro nell’agroalimentare


L’industria agroalimentare è gigantesca: secondo la FAO, coinvolge circa 1,3 miliardi di lavoratori nel mondo, quasi il 40% della forza lavoro globale. Ma dietro questa mole di lavoratori e di prodotti, si nasconde uno dei più cupi riflessi della modernità: allevamenti intensivi che dominano il paesaggio, producendo carne a basso costo e imponendo un prezzo alto – e invisibile – in termini di sofferenza animale, degradazione ambientale, resistenza antibiotica e condizioni lavorative disumane.

Per costruire il futuro del lavoro in questo settore serve una rottura radicale con il presente, sia per questioni ambientali e salutari ma soprattutto per il fattore etico.

L’oscenità del confinamento

In Europa, oggi esistono oltre 24.000 megafarm cioè allevamenti industriali con decine di migliaia di animali, seguendo modelli in stile USA. Solo nel Regno Unito ce ne sono quasi 1.800, mentre l’Italia è tra i paesi col maggior numero.

Animali confinati in spazi angusti, mutilati, costretti all’immobilità, spesso incapaci di camminare, chiusi in gabbie così ristrette da causare atrofia muscolare. Numerosi attivisti sotto copertura hanno documentato immagini raccapriccianti nel corso negli anni, mettendo in luce una tortura quotidiana divenuta sistemica: bufale immerse nel fango fino alle ginocchia, cadaveri trascurati, polli e maiali in condizioni igieniche degradanti. 

Ambiente e salute: aria, antibiotici, resistenza

Allevamenti che rilasciano metano, ammoniaca, particolato fine e persino antibiotici nell’aria circostante fino a tre volte più concentrazione rispetto alle aree non influenzate. In Lombardia, l’agricoltura e la zootecnia sono causa del 97% delle emissioni di ammoniaca, contribuendo in modo massiccio all’inquinamento atmosferico e ai picchi di particolato fine, un agente inquinante costituito da particelle che rimangono sospese nell’atmosfera e, a causa della loro ridotta dimensione, possono essere inalate dall’uomo per poi penetrare profondamente nel sistema respiratorio, causando problemi di salute molto gravi. 

L’uso massiccio di antibiotici è parte integrante degli allevamenti intensivi, poiché favorisce la crescita, compensa il sovraffollamento e previene le epidemie, tuttavia crea anche batteri molto resistenti.  Nell’Unione Europea l’utilizzo è diminuito del 28% tra 2018 e 2022, ma la strada per l’obiettivo 2030 è ancora lunga da percorrere. A livello globale, si stima che possa aumentare del 29% entro il 2040 se non cambiamo rotta. L’ambiente diventa serbatoio di resistenze, con il suolo, le acque e gli alimenti che si trasformano in portatori di geni AMR che conferiscono resistenza agli antimicrobici, rendendo vano l’effetto di farmaci che combattono le patogenesi causate da microrganismi come batteri, funghi, virus e parassiti, permettendo ai microrganismi di sopravvivere all’azione degli antimicrobici, rendendo così le infezioni più difficili da curare. 

Settore agroalimentare e sostenibilità: come si dovrebbe adattare?

Il futuro del lavoro nell’agroalimentare, per essere realmente sostenibile, richiede un pacchetto integrato di interventi tecnologici, normativi e formativi. La riconversione professionale è prioritaria con programmi di reskilling per trasformare ruoli manuali ripetitivi in posizioni di monitoraggio digitale, gestione dei dati ambientali e benessere animale, sostenuti da fondi pubblici e partenariati privati. La Commissione europea propone incentivi per adottare la precision livestock farming, tramite sensori, intelligenza artificiale, robotica, così riducendo sovraffollamento, emissioni e uso di antibiotici e creando domanda per tecnici di manutenzione, data analyst e ingegneri ambientali. 

Parallelamente, per dirigere il mondo del lavoro agroalimentare verso modelli sostenibili, è indispensabile un cambio di paradigma anche dietro al piatto: le abitudini alimentari dell’Occidente – caratterizzate da un’elevata presenza di carne e derivati, soprattutto di origine intensiva – hanno un impatto sproporzionato sugli ecosistemi, sulla salute pubblica e sulle strutture occupazionali della filiera. 

Ridurre in modo significativo il consumo di carne da allevamenti industriali, come raccomanda la FAO, libererebbe enormi risorse ambientali con meno terreni destinati a coltivazioni di mangimi, meno acqua dolce sottratta ad altri usi e, soprattutto, un abbattimento rilevante delle emissioni di metano e ammoniaca.

I benefici sanitari e occupazionali per l’essere umano

Dal punto di vista sanitario, una dieta più varia e centrata su proteine vegetali è associata a una riduzione del rischio di malattie cardiovascolari, obesità e diabete di tipo 2, come conferma l’OMS. Inoltre, minore domanda di carne intensiva significa un calo nell’uso profilattico di antibiotici negli allevamenti, riducendo la pressione selettiva che alimenta il fenomeno della resistenza antimicrobica, riconosciuta come una delle maggiori minacce per la salute globale.

Sul piano occupazionale, questo spostamento della domanda alimentare aprirebbe la strada a filiere diversificate e ad alto valore aggiunto, come l’agricoltura biologica, agroecologia rigenerativa, produzione e trasformazione di legumi e ortaggi, sviluppo di proteine alternative e innovazione nelle tecnologie alimentari. Secondo la strategia europea Farm to Fork, ogni euro investito nella transizione verso un sistema alimentare sostenibile genera ritorni non solo in termini ambientali e sanitari, ma anche in posti di lavoro qualificati e distribuiti territorialmente

Conclusioni

Scegliere di continuare a sostenere un modello che consuma risorse, distrugge ecosistemi e normalizza lo sfruttamento animale e umano dovrebbe essere l’ultima delle alternative di fronte alla possibilità di trasformare radicalmente produzione e consumo, mettendo al centro la salute del pianeta e delle persone. Le tecnologie, le competenze e le politiche per questa transizione esistono già, ciò che manca è il coraggio collettivo di rompere con le proprie abitudini.

Premiare chi investe in etica, innovazione e sostenibilità è un cambiamento che parte dalla forchetta, ma arriva fino ai campi, alle stalle e agli uffici di chi costruisce il sistema agroalimentare che, in questa prospettiva di rinnovazione, dovrebbe essere capace di nutrire non solo i nostri corpi, ma anche la dignità e il futuro delle generazioni che verranno.

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