I danni generati dall’aumento delle temperature che travolgono le nostre economie sono il sintomo manifesto che la crisi climatica non è più una problematicità epistemica, da affrontare meramente sotto l’aspetto scientifico, ma si sta tramutando sempre più in un tema dirimente sul piano dei diritti umani e della giustizia socio-economica.
Si parla ormai di “diritto al clima”, inteso – secondo l’accademico Attilio Pisanò – come “diritto a vivere in un sistema climatico stabile e sicuro, non alterato artificialmente dalle attività antropogeniche”, diritto da cui sorgerebbe un’obbligazione in capo ai singoli Stati e alle organizzazioni internazionali.
Un’idea un tempo teorica che oggi sta trovando spazio nel dibattito pubblico e istituzionale: si pensi alla Risoluzione del Parlamento Europeo sul Green Deal che afferma esplicitamente come “tutte le persone che vivono in Europa dovrebbero godere senza discriminazioni del diritto fondamentale a un ambiente sicuro, pulito, sano e sostenibile e a un clima stabile” da garantire con politiche ambiziose e pienamente azionabile in sede giudiziaria, la cui violazione diventa anche una questione di giustizia intergenerazionale e, in particolar maniera, di equità nel mondo del lavoro.
L’evoluzione concettuale di cui si discute, non va a intaccare solo l’ecosistema, ma anche le basi stesse del nostro vivere civile e produttivo che, non solo sul piano giuridico ma specialmente sotto un profilo pratico, avrebbe delle conseguenze anche sul diritto al lavoro, riconosciuto peraltro dalla nostra Costituzione.
Il “diritto al clima”: un nuovo diritto umano?
Il diritto al clima è un concetto recente, sviluppato in ambito giuridico per affermare la pretesa dei cittadini – e in particolar modo delle future generazioni – di vivere in un ecosistema stabile e sicuro, per cui ciascuno dovrebbe poter contare su un ambiente non alterato dall’uomo, libero dagli eccessi di emissioni di gas serra e dall’inquinamento che provoca il riscaldamento globale. Tale definizione sottolinea “la necessità di rompere quel nesso di determinazione tra clima e attività antropogeniche che è alla base dei cambiamenti climatici”, che vedono l’uomo come causa prima.
Si tratta di un diritto ancora in via di consolidamento, ma che ha già ispirato cause legali storiche: dal caso Urgenda nei Paesi Bassi – in cui un tribunale ha imposto allo Stato tagli più ambiziosi alle emissioni in nome della tutela dei cittadini – ai ricorsi presentati dinanzi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per affermare che l’inazione climatica dei governi viola i diritti fondamentali alla vita e alla salute. La prospettiva è che la stabilità climatica diventi un bene giuridico da garantire a tutti, al pari dei diritti fondamentali già riconosciuti.
Le conseguenze della crisi climatica sull’economia italiana
In un’Italia già intrinsecamente segnata da vulnerabilità climatiche strutturali, l’acuirsi di ondate di calore, siccità persistenti e fenomeni atmosferici estremi, incide in modo profondo e trasversale sulle condizioni materiali dell’agire lavorativo, in particolare nei comparti tradizionalmente più esposti come l’agricoltura, l’edilizia e la logistica.
Come osservano autorevoli analisi, gli eventi meteorologici estremi e l’innalzamento delle temperature hanno un impatto diretto sul diritto al lavoro e sulle condizioni dei lavoratori. Straripamenti fluviali, ondate di calore e siccità mettono a repentaglio coltivazioni, imprese turistiche e intere filiere produttive, interrompendo la continuità dei redditi e aumentando la precarietà. Se i contadini non possono seminare o se le stazioni sciistiche e le coste balneari diventano inospitali, vengono meno le basi materiali stesse dell’occupazione, minando l’equità e la dignità dei cittadini impiegati nei settori più a rischio.
Secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, entro il 2030 fino a ottanta milioni di posizioni lavorative a livello globale potrebbero essere compromesse dallo stress termico, con l’Italia – tra le nazioni europee maggiormente esposte – che sconterà non soltanto la geografia del rischio climatico, ma anche la sedimentazione storica di diseguaglianze sociali e territoriali che ne minano la resilienza produttiva.
La crisi climatica agirebbe come catalizzatore di iniquità, amplificando divari preesistenti e colpendo con durezza le categorie lavorative più fragili e marginalizzate, specie per quanto concerne il meridione del Paese.
Il legame col diritto al lavoro
Stando ai dati che sottolineano le conseguenze della crisi climatica sulla nostra economia, emerge subito un potente legame con il diritto al lavoro, che l’Italia stessa, come sancisce la Costituzione da “Repubblica fondata sul lavoro”, riconosce a tutti i cittadini tramite l’articolo 4, impegnando lo Stato a promuovere le condizioni per realizzarlo.
Tale diritto però non si esercita nel vuoto, sia perché richiede un ambiente stabile e salubre per essere garantito (si pensi allo stop estivo obbligato per i lavoratori in ore calde previsto da ordinanze in alcune regioni italiane) ma anche perché, come fatto emergere in precedenza, la stabilità occupazionale rischia di essere notevolmente compromessa se non si introducono azioni materiali per arginare l’aumento delle temperature.
Diventa imprescindibile, dunque, riconoscere i nuovi rischi ambientali come elementi costitutivi del contesto occupazionale contemporaneo, aggiornando le tutele esistenti e predisponendo adeguati strumenti di adattamento, dalle interruzioni obbligatorie durante le ore di calore estremo, fino a misure di sostegno economico nei casi di sospensione forzata dell’attività lavorativa.
Ancor più urgente si fa però l’elaborazione di una visione strategica che accompagni la transizione ecologica con equità, prevedendo investimenti sistemici nella formazione, nella riconversione industriale e nella valorizzazione delle nuove professioni connesse alla sostenibilità ambientale.
Conclusioni
Affrontare di petto la crisi climatica significa difendere il fondamento invisibile dell’architettura sociale, custodendo il futuro del lavoro inteso non come mera occupazione, ma come espressione della dignità umana e della partecipazione alla vita civile.
Se il diritto al lavoro nasce dalla Costituzione, il diritto al clima ne diventa il presupposto implicito ma allo stesso tempo imprescindibile. Non vi sarà prosperità, né coesione, né giustizia sociale, se continueremo a costruire occupazione su un pianeta che brucia.
Solo riconoscendo che l’equilibrio climatico è condizione ontologica della libertà umana, potremo aspirare a un futuro in cui la transizione ecologica non sia il trauma di pochi, ma la rinascita condivisa di tutto il Pianeta.